mercoledì 29 ottobre 2014

La domenica lasciami sola di Simonetta Sciandivasci.

Cari amici, oggi ci divertiamo.
In questi giorni ho avuto fra le mani “La domenica lasciami sola” di Simonetta Sciandivasci, un romanzo esilarante, gustoso, che non vedo l’ora di regalare ad alcune mie compagne di sventura, ossia a quelle tre anime in pena che ogni domenica pomeriggio o nel corso di sciagurati sabato sera o, ancor più sfacciatamente!, in giornate insospettabili come il martedì o il venerdì, sono costrette a scendere a patti con la passione per il calcio del proprio partner. Una sorte grama, direte…. ma non troppo, come ci insegna l’autrice del romanzo appena letto, una voce irriverente e caustica che, con secchiate di scorticante ironia, per 236 pagine mi ha risarcito di tutto il tempo speso a inseguire le altalene del campionato o della Champions, e molto più dei mugugni e delle esultanze di un marito “momentaneamente irraggiungibile” dal mondo esterno, me compresa.
L’ameno libro, edito dalla casa editrice Baldini&Castoldi, è uscito la settimana scorsa, il 22 Ottobre. Quella di oggi sarà pertanto un’Infeltrita DOC, fresca fresca di lettura.


Titolo: La domenica lasciami sola

Autore: Simonetta Sciandivasci

Casa editrice: Baldini&Castoldi

Collana: romanzi e racconti

Uscita: 22 Ottobre 2014

Numero di pagine: 240

ISBN: 9788868527518

Prezzo E-book: 6.99

Per acquistarlowww.baldinicastoldi.it


Incipit
Cinque minuti di partita e mi sono già persa la cosa fondamentale: la porta. Non ho idea di dove debba segnare chi.
I maschi non sanno fare due cose contemporaneamente, ma i calciatori sì. Sono esseri dotati di un sovrannaturale senso dell’orientamento grazie al quale riescono a correre dentro lo stesso rettangolo per novanta minuti, inseguendo una palla e mantenendo inalterata la cognizione di destra e sinistra. Io, dopo due giri nella corsia dei detersivi al supermercato, recupero le abilità cognitivo-motorie solo in presenza di un avvocato. 1 a 0 per loro.



L’Infeltrita
La domenica lasciami sola non è soltanto un titolo, ma una dichiarazione di guerra a Rita Pavone.
Una sfida contro la più comune, umana, femminea reazione di una donna di fronte alla calcio-mania del proprio compagno: ehi ci sono anch’io, portami con te, spiegami tutto, non mi abbandonare, dimmi che sono più importante di un rigore. Guarda come sono brava a tifare. E con che piglio!
Uomo-donna-calcio: un triangolo da ridiscutere.
La protagonista del romanzo, che parla in prima persona, ha deciso di smetterla con i piagnistei e con l’emulazione del maschio ad ogni costo. Sa che il calcio le è estraneo e lo accetta, così come accetta di guardare in solitario una partita per cercare di comprendere non tanto il funzionamento del gioco, quanto piuttosto il gusto che in esso vi trovano gli uomini, o meglio l’uomo di cui si è innamorata. Alessandro. Il quale, nella fattispecie, ha preferito la partita a una cena con lei. E si è beccato il soprannome di Baghdad, ovvero maschilista retrivo talebano.
La storia si svolge fra la finale di Champions (Atletico Madrid vs Real Madrid) e i mondiali in Brasile, un tempo breve, necessario però a partorire un’analisi spietata e divertentissima che mette a confronto l’universo maschile e quello femminile entrando nel cuore di ogni cliché e smontandolo brano a brano. Linguaggi, atteggiamenti, reazioni e sogni fanno di uomini e donne, mondi su orbite diverse.
Si incontreranno?

Il calcio è la serra dei sogni irrealizzati  dei maschi non di tutti, ma di molti.
Allo stesso modo le donne cullano un altro immaginario favoloso, per esempio il matrimonio di Grace Kelly, strascico e pizzi: sogno collettivo altrettanto radicato e altrettanto contestato dalla intellighèntzia un po’ snob e dal femminismo d’ogni tempo, grave e ortodosso.
Per parte sua, la protagonista rivendica il diritto alla leggerezza. A non fare delle differenze di genere sempre e solo una disquisizione sui massimi sistemi, ma a godere piuttosto del privilegio di considerare oggi tale differenza un vantaggio. 
Del resto, la frivolezza è il pregio (non il limite!) di questo romanzo, che se ne serve come antidoto alla superbia intellettuale, alla miopia di chi si priva del lato scanzonato della vita, ma coltiva pregiudizi: tifoso = ignorante rozzo omuncolo.
La narrazione è un impasto di riflessioni cervellotiche e dialoghi spassosi che sembrano stralci di copioni teatrali efficacissimi. I personaggi sono pochi e tutti interagiscono con la protagonista e la sua vena ciarliera. C’è l’amica antropologa, femminista di facciata. L’amico in crisi coniugale, consolato dalla Playstation. L’amico saggio che spiega l’ABC del maschio medio a noi donne rompiscatole e, in questo campo, analfabete. E c’è l’uomo perfetto. Bello, creativo…e tifoso!
Non c’è un freno alla penna di Simonetta Sciandivasci. Spudorata e sincera quando afferma di non disdegnare un marito ricco, irriverente in un fanta-dialogo con Dio in persona, arguta, pirotecnica nei giochi di parola, nelle allusioni- citazioni- metafore & iperboli.
Mi è piaciuto lasciarmi scandalizzare da una voce narrante così impertinente e poliedrica.
Nel romanzo i ruzzoloni sono continui – e si ride da pazzi, proprio quando i “mentalismi” femminili producono equivoci, situazioni esasperanti quanto comuni, disperazioni e ansie, nelle quali è impossibile non riconoscersi - e non riconoscere almeno metà delle proprie amiche!
Perciò lo consiglio a loro, e non solo.
Perfetto per chi cerca una storia romantica, ma con poco zucchero e molto vetriolo, insomma fuori dal cliché.
Per chi almeno una volta nella vita ha detto “non mi merita”: Simonetta Scandivasci vi mostrerà che state sbagliando tutto.
Per chi ha bisogno di una risata.
Per chi non ha capito il fuorigioco e non lo imparerà con questo romanzo.
Per chi non è d’accordo e vuole continuare a fare guerra al calcio, ai calciatori e al tifo: vi piacerà da morire imprecare contro l’autrice e le sue tesi.

Zoom
Cambiamo registro. Mi soffermo su un passaggio che mi ha colpito:
Così come il Natale comincia ormai a novembre, i Mondiali iniziano molto prima della cerimonia d’apertura. Esattamente, quando le bandiere dell’Italia vengono issate sui balconi di tre quarti dei condomini del Paese – e lì restano per mesi, come certe lucine di Natale o come i cardi che infestano i palazzi antichi dei paesini meridionali, sia che si vinca sia che si perda, a dimostrare che la pigrizia italiana è la costante attesa di un avvento; la consapevolezza dell’eterno ritorno dell’uguale…
Una considerazione amara, in un contesto ironico. Un tocco quasi impercettibile di lirismo - i cardi che spuntano nei palazzi antichi – e l’eleganza è assicurata. Passa quasi inosservata, perciò è più preziosa.

Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico e ha trascorso la sua adolescenza fra Matera e Ferrandina. Oggi scrive per Il Foglio, il Giornale, pagina99 e Donneuropavive a Roma. Chissà se “i cardi che infestano i palazzi antichi dei paesini meridionali” non siano la traccia della provincia verde-azzurra che ha segnato la sua infanzia. Sapete bene che l’Infeltrita ha un debole per il lato umano degli autori, per le loro storie e le loro radici, per questo si diverte a indovinare il punto d’intersezione fra la vita e vera e la finzione...

venerdì 24 ottobre 2014

Apoptosis di Renato Mite. Recensione.

Buon pomeriggio, amici!
Anche se oggi sono un po’ febbricitante non voglio rinunciare alla possibilità di presentarvi un’altra novità fra quelle appena lette. Si tratta del romanzo Apoptosis del pugliese Renato Mite, classe 1983, nato nella bella Trani.
L’autore dimostra la sua passione per l’informatica e per le scienze in generale mettendo al centro della narrazione - 275 pagine che si leggono a ritmo incalzante - temi attualissimi come l’ipertrofia tecnologica e la responsabilità della ricerca, pericolosa se condotta senza scrupoli.
Di questo libro mi ha colpito soprattutto la pulizia e la cura nell’impaginazione, nella scrittura e nella punteggiatura. Sebbene si tratti di un’opera di selfpublishing non vi sono sbavature formali, né refusi, né ridondanze. Il prezzo dell'edizione cartacea all’inizio mi sembrava alto, ma poi l’impressione ricavata è stata quella di un lavoro certosino, ben fatto, non frettoloso.
Non ho letto molti romanzi di fantascienza, né amo particolarmente i medical thriller (non so neppure se questo sottogenere esista o lo stia inventando sul momento) perché da un’opera di fantasia mi aspetto relax, evasione, non certamente ansia, tuttavia questo libro l’ho letto mettendo da parte ogni resistenza e trovandolo piacevole.
Mi sono lasciata incuriosire dal PNS,  strumento efficiente e inquietante, emblema di una società che sempre più ciecamente si affida alla tecnologia, ignorandone però i meccanismi che la fanno funzionare. Subendola…
Cos’è il PNS? Lo scoprirete nell’infeltrita qui sotto!
Intanto ringrazio Renato Mite per aver voluto condividere con noi il frutto della sua fatica e vi invito a conoscerlo meglio sul suo sito www.renatomite.it

Titolo: Apoptosis

Autore:Renato Mite

Editore: selfpublishing

Anno: 2014

Genere: fantascienza

Numero di pagine: 275

ISBN: 978 88 91066 61 9

Costo in cartaceo: 22 euro

Costo ebook: 6,67 euro



Dove acquistarlo: LaFeltrinelliAmazonIlmiolibroGoogle Play

Incipit
“La lampada del corridoio illuminò la stanza buia e silenziosa dove la donna dormiva.
Agnes possedeva una figura snella ma non filiforme, la bocca sottile, il naso piccolo e regolare, gli occhi e i capelli neri. Tutte qualità tramandate a sua figlia Elizabeth.
Matt socchiuse la porta alle sue spalle senza far rumore  e allo stesso modo si addentrò nella camera della donna”
L’Infeltrita
Il romanzo principia in medias res, non ci racconta gli antefatti, ci scaraventa direttamente nella storia, in un futuro non determinato - che potrebbe essere anche prossimo! – e in un luogo altrettanto indeterminato degli USA, come si ricava dai nomi dei protagonisti, Matthew, Liz, Jason, Bill, Chip e da alcuni passaggi, comprese le abitudini alimentari: tratti di esotismo necessari al genere scelto. Un hacker a Pisa sarebbe stato meno credibile, la fanta-tecnologia made in Italy sarebbe apparsa farlocca!
Scene chiare. Dialoghi fitti. Il romanzo sembra una sceneggiatura. Veloce. Americana. La focalizzazione esterna conferisce al racconto una patina di oggettività che svuota la voce narrante di ogni responsabilità: nessun commento, nessun giudizio, nessuna ironia, niente pathos, niente morale. Lessico preciso, tecnico quando l’autore si addentra in ambiti davvero ostici (l’informatica, la medicina, l’ingegneria informatica applicata alla medicina) hollywoodiano negli scambi di battute e nell’umorismo. La scrittura serve alla narrazione, non al virtuosismo. E la narrazione avanza senza intoppi. Portatori di ogni messaggio sono i personaggi stessi, costantemente in azione e in dialogo tra loro.

In Apoptosis si racconta di una società in cui gli uomini e le donne usufruiscono di un sistema di autodiagnosi basato sulla Patoneuroscopia: il PNS, un dispositivo d’avanguardia che si indossa sulla testa e permette in tempo reale di monitorare il proprio stato di salute e il funzionamento degli organi. Bello, no? Sembrerebbe quasi di potersi sbarazzare una volta per tutte dei medici (io personalmente continuo ad averne paura, a 35 anni suonati!)
In realtà la HOB Medicines, la società che ha messo in circolazione questo prodotto, ha omesso molti dettagli sul reale funzionamento dell’apparecchio. Per esempio, nasconde a tutti quale sia il principio secondo cui questo dispositivo interagisce con il corpo umano (non ve lo anticipo, ma è inquietante). O come sia stato sperimentato. E su chi. Sono proprio gli antesignani, quanti in incognito hanno provato la prima versione del PNS a mostrare segni preoccupanti. Un ricercatore che ha aperto la strada della Patoneuroscopia, suo figlio ammalato, un hacker, un giovane ricercatore della HOB preoccupato dai risultati di alcune osservazioni, faranno breccia nel sistema perfetto della rete digitale della sanità pubblica e daranno l’allarme. Il titolo Apoptosis allude a un processo di autodistruzione cellulare, lascio trarre a voi le conclusioni.
I personaggi sono molti e li seguiamo nella crescita. La prima parte del romanzo La Breccia vede protagonisti un gruppo di ragazzi molto più esperti con l’hackeraggio che nei rapporti con l’altro sesso (relazioni ingenue e tenere, battute goliardiche, effusioni goffe e baruffe). La seconda parte “Il parossismo” sposta l’attenzione su nuove figure che affiancano il gruppo dei ragazzi ormai cresciuti e imborghesiti (si sono sposati, hanno figli o li attendono, trascurano la famiglia) e ci porta nel cuore della HOB, in laboratorio, tra microscopi e computer. Il ritmo accelera, le scene mutano di continuo, il lettore si precipita verso il finale desideroso di capire se potrà rallegrarsi per un happy end oppure se dovrà temere scenari apocalittici.
A me è piaciuto riflettere su come troppo spesso ci serviamo meccanicamente della tecnologia d’avanguardia, affascinati dalle prestazioni e soggiogati dalla sua facilità d’uso, senza però porci ragionevoli dubbi sul perché essa sia stata messa sul mercato e senza badare troppo alle conseguenze della privacy sistematicamente violata, della riduzione dell’uomo a utente, a consumatore. Ecco, il PNS, nella sua finzione letteraria, mostra le estreme conseguenze, la deriva di un processo in corso, tutt’altro che fantascientifico!
Lo consiglio agli appassionati di informatica.
A chi in un libro cerca tensione sempre alta e velocità narrativa.
Agli ingegneri. A chi costruisce. Progetta. Sperimenta.
Ma soprattutto a chi si pone domande scomode prima di usare uno strumento, sia esso uno smartphone o una rete sociale, un’applicazione da scaricare o un dispositivo materiale.
Come? Perché? A vantaggio di chi?

Zoom
Non saprei dire perché, ma ho scoperto di avere un debole per i ringraziamenti finali. Forse perché svelano il lato umano di un autore e lo avvicinano a noi lettori. Forse perché sollevano il sipario sui meccanismi di composizione di un'opera. I ringraziamenti di Renato Mite sono stati particolarmente generosi. Ci si trova di fronte a una selva di nomi che grondano affetto e familiarità. Mi è sembrato di ritornare in un mondo più "addomesticato" e a misura d'uomo, rispetto a quello dilatato e disumano raccontato dal suo romanzo. 

martedì 21 ottobre 2014

Le parole nostre. Viaggio memoriale di Dionisio Simone.

Titolo: Le parole nostre
Sottotitolo: Viaggio nella memoria di un profugo istriano.
Autore: Dionisio Simone
Introduzione: Vito Antonio Leuzzi
Casa editrice: Edizioni dal Sud, Bari
Anno di pubblicazione: 2014
Genere: Dizionario "narrativo"
Numero di pagine: 159
Formato: cartaceo
Costo: 15,00
ISBN: 978 88 7553 199 7
Come acquistarlo: info@dalsud.it oppure www.dalsud.it


Oggi, cari amici, vi presento un'opera un po' particolare, a cui tengo molto.
Non si tratta di un romanzo, né di un saggio, né di un'opera in versi. 
Di che cosa parliamo, allora? - vi starete domandando scettici e impazienti. 
Parliamo di un vocabolario! Ma come? Si può recensire un vocabolario? 
Io ci ho provato qualche mese fa...
Elenco di nomi evocativi, grappoli di idee associate alle parole: il dizionario che vi propongo non vuole istruirci, ma narrare storie, portarci lontano nel tempo e nello spazio, farci riflettere sul valore della memoria. Si tratta, infatti di una selezione di parole emotivamente pregnanti che diventano spunti per scandire la storia dell'autore, Dionisio Simone, un profugo giuliano che ha lasciato la sua terra - Pola - nel 1947. Ho avuto modo di conoscere Dionisio Simone personalmente, di intravedere numerose tracce della passione con cui ha atteso a quest'opera, e tuttavia ritengo che sia nelle pagine del libro che questo afflato emerga con più forza e schiettezza.
Docente di Latino e Greco, l'autore non nasconde il suo amore per la lingua - il dialetto istriano - che sopravvive nella memoria e ne rappresenta la radice profonda, il legame con la terra, eredità preziosa di famiglia da custodire e tramandare. Un thesaurus dell'animo, mi viene da dire. 
Ho letto "Le parole nostre. Viaggio nella memoria di un profugo istriano" quando ancora non era stato pubblicato, quando ancora si chiamava "Noi parlemo cussì" (un titolo che preferivo, perché più spontaneo e accorato). Con piacere ne ho scritto anzitempo una recensione infeltritissima, che ora è diventata la prefazione al libro. 
Ve la ripropongo qui sotto, con l'autorizzazione dell'autore, sperando di riuscire a incuriosirvi così come, lo scorso inverno, sono stata incuriosita io da questa pioggia di parole in un dialetto a me sconosciuto.

Incipit
"Abandonàr = abbandonare
Nel pensare alla nostra terra istriana e alla casa che abbiamo abbandonato, mi vengono in mente i versi della prima bucolica di Virgilio, che esprimono la tristezza del pastore Melibeo, costretto dalla guerra, come è capitato anche a noi, ad allontanarsi dai luoghi che amava: Nos patriae finis et dulcia linquimus arva, / nos patriam  fugimus. (Noi la terra dei padri lasciamo e i cari campi, noi fuggiamo dalla patria)"
L'Infeltrita
Lessico e zibaldone. "Le parole nostre. Viaggio nella memoria di un profugo istriano" non ha la sistematicità di un dizionario, ma la poliedricità della memoria che non conosce steccati, che non ha bisogno di loci, che si accende con le sue intermittenze a illuminare ora un interno familiare ora una bicicletta in corsa nella domenica polesana, l'aglio di una filastrocca da sussidiario o le pagine immense dei classici.
Questa è un'opera di resistenza, di tenerezza e di pietas. In principio ci sono le parole "nostre", c'è il "noi", l'insieme che accoglie e che consola: una famiglia che ha perduto la sua terra e porta le radici altrove. Il "noi" è l'insieme mai intimamente risarcito dei profughi della perduta Pola, italiani che oggi un confine politico avrebbe voluto croati, sparpagliati nel ventre grasso del dopoguerra e dimenticati.
Poi c'è il dialetto polesano, dolce e svelto. Le consonanti scempie. Piccola lingua domestica che dà voce ai ricordi, che si fa storia di vita, lemma a lemma, sollevando il sipario laddove la grande storia non ha saputo (o voluto) vedere. Si tratta di una lingua che culla e che protegge, e perciò, in questo senso, profondamente materna. Estrema resistenza di una cultura senza terra, è ciò che resta di un'identità difficile, non ancora risolta. 
Il lettore fruga tra aneddoti e cose, istantanee e digressioni. Accompagnato dalla leggerezza degli esempi, origlia stralci di conversazioni lontane. Paure e sorrisi, schianti e giochi. 
In un dizionario la cadenza non si sente, al più si segnano gli accenti acuti e gravi. Di questa musicalità perduta si avverte la mancanza, e non c'è soluzione: perciò si comprende a fondo la nostalgia dell'autore, più forte di ogni scanzonata ironia.
A chi lo consiglio
A chi come me è curioso di indagare il rapporto controverso che si stabilisce tra Storia e Memoria.
A chi ama l'approccio alla storia dal basso. 
A chi vuole ritrovare un pezzo di micro-storia, spesso dimenticato.
A chi ama le parole e gli aneddoti.
A chi "Homo sum humani nihil a me alienum puto"...in questo libro c'è davvero sapore di umanità!

La dedica!

domenica 19 ottobre 2014

L'eleganza del riccio. Paradiso dei lettori.

L’eleganza del riccio di Muriel Barbery è un romanzo molto amato da chi ama i libri. L’Infeltrita non fa eccezione. L’ho letto cercando disperatamente di non concluderlo troppo presto, mettendo in campo molte strategie, inutili quanto varie: lunga contemplazione della copertina, lettura ad alta voce a ritmo lento, trascrizione di passi, pause di riflessione.
Adorazione pura: che sia un ritorno d’adolescenza? Non so, ma trovo che l’ edizione e/o dell’aprile 2014 sia bellissima ed estremamente curata: un vero e proprio invito a saggiare la consistenza del volumetto, ad accarezzarne la sovra copertina azzurra e, all’interno, le pagine piuttosto spesse e ruvide. Chiari ed eleganti i caratteri, capilettera essenziali, impaginazione vagamente retrò. Tutto sembra congiurare allo scopo di catturare l’attenzione del bibliofilo, quello fanatico e un po’ nostalgico che si profonde in crociate e filippiche contro l’avvento dell’e-book. Un’edizione che piacerebbe molto, per esempio, ai personaggi di questo romanzo, come avrete modo di capire a breve.
La sovra copertina azzurra mostra, sullo sfondo, l’elegante portone di un palazzo cittadino e, in primo piano, una ragazzina dai lunghi capelli rossi e un vestito a quadroni rosa. Rosa è anche il colore del titolo. La copertina rigida, sotto, è blu carta da zucchero di tono leggermente più scuro. Nulla è lasciato al caso, neppure la decisione di utilizzare due caratteri di stampa diversi per segnalare graficamente la presenza di due voci diverse: quella di Renée, la portinaia e quella di Paloma, una dodicenne dall’intelligenza superiore alla media. Le due voci hanno, inoltre, due diverse traduttrici: Cinzia Poli per Renée ed Emanuelle Caillat per Paloma.
Confesso che il concorso di tutti questi dettagli ha di gran lunga contribuito ad infiammare il mio innamoramento un po’ puerile per il romanzo.
Ho ceduto, mio malgrado, alle lusinghe del marketing.
Incipit
«Marx cambia completamente la mia visione del mondo» mi ha dichiarato questa mattina il giovane Pallières che di solito non mi rivolge nemmeno la parola.
Antoine Pallières, prospero erede di un’antica dinastia industriale, è il figlio di uno dei miei otto datori di lavoro. Ultimo ruttino dell’alta borghesia degli affari – la quale si riproduce unicamente per singulti decorosi e senza vizi -, era tuttavia raggiante per la sua scoperta e me la narrava di riflesso, senza sognarsi neppure che io potessi capirci qualcosa. Che cosa possono mai comprendere le masse lavoratrici dell’opera di Marx? La lettura è ardua, la lingua forbita, la prosa raffinata, la tesi complessa.
A questo punto, per poco non mi tradisco stupidamente.
«Dovrebbe leggere L’ideologia tedesca» gli dico a quel cretino in montgomery verde bottiglia.
L’Infeltrita
Due voci. Due personaggi femminili sui generis. Due solitudini che si intersecano per caso, rompendo il volontario e ostile isolamento dal mondo in cui si sono rinchiuse.
Siamo a Parigi in rue  de Grenelle, al numero 7.
Renée è la portinaia dell’ elegante palazzo in cui abitano ricchi industriali, ministri, critici, alta borghesia e vecchia nobiltà che condividono atteggiamenti di ipocrisia e di boria classista. Lo sa bene Renée, da tutti loro snobbata e strapazzata senza troppi infingimenti. Del resto, all’apparenza, è una portinaia che bene risponde al cliché: trasandata, inacidita, col televisore acceso a volume altissimo e sintonizzato sempre su qualche programma demenziale.
Paloma è una dodicenne inquieta, completamente ignorata e incompresa dai suoi coetanei e dalla sua famiglia. Secondogenita di un ministro che non brilla certo per acume, ha pianificato di mettere fine alla propria vita, perché disgustata dall’ottusità di chi la circonda. Nessuno sembra essersi accorto delle sue doti intellettive, superiori alla media, di cui ella è invece ben consapevole.
Nessuno, del resto, si è accorto della recita di Renée, la portinaia. Che nel mistero della sua casa, fra mille accortezze, legge di nascosto Kant, Hegel, Proust, Husserl e si commuove di fronte a film di registi giapponesi, da cinefila consumata e avidissima. Raffinata intellettuale, nauseata dall’ignoranza che i suoi “datori di lavoro” neppure si rendono conto di sbandierare al mondo sotto il peso dei titoli e dei gioielli che ostentano, trascorre la vita “mascherata” da portinaia, con atteggiamento di assoluto rifiuto della vita e di misantropia non nascosta.
Renée e Paloma sono due facce dello stesso tipo: l’intellettuale che rifiuta di scendere a patti con la terra, che preferisce rimanere appartato e difendere la propria purezza nascondendola con ogni mezzo. Quello che sceglie di uscire di scena, rinunciando alla vita perché troppo corrotta. Guardano il mondo con occhio critico, a volte spietato ma non fanno nulla per cambiare ciò che non funziona. Denunciano la volgarità dei nuovi e dei vecchi ricchi, ma di fatto restano nell’ombra, consolandosi e beandosi nel proprio autocompiacimento.
Certo, sono eleganti. Hanno la capacità di commuoversi per la scena di un film che la massa troverebbe noioso e incomprensibile, amano la letteratura al punto da chiamare Lev il gatto, in onore di Tolstoj, sono capaci di grandi evoluzioni cerebrali. Ma sono anche acuminate e spigolose come ricci, refrattarie al contatto, all’amore verso gli altri perché imperfetti. Si sentono migliori, e se non lo mostrano, è perché vivere in incognito sembra sublimare ancor più il proprio bisogno di eccezionalità.
All’improvviso nel palazzo di rue de Grenelle, 7 arriva un nuovo inquilino e sia Renée che Paloma sono costrette a rompere il  muro che hanno eretto e a interagire con lui e tra loro. Monsieur Ozu è un ricco giapponese, colto e raffinato. È lui, l’intellettuale veramente magnanimo, curioso verso il mondo e innamorato dell’essere umano nelle sue molte sfaccettature. Sarà un’ondata di aria fresca, una vera rivoluzione nell’empasse.

Il lettore ama di questo romanzo l’omaggio che continuamente le due protagoniste fanno alla letteratura. Si rispecchia nella libro-mania di Renèe, nei suoi vezzi, nel suo snobismo un po’ presuntuoso. Apprezza il linguaggio della portinaia, l’assoluta devozione alla grammatica, il lessico ricercato, il periodare fluente, l’ironia sempre un po’ cattivella verso il volgo. Si compiace e si auto-compiace in questi personaggi. Fa il tifo per Paloma, per le sue capacità critiche, per il suo essere autenticamente ribelle. E spera, fino alla fine, che si salvi dalla misantropia.
È una forma di rispecchiamento subdolo e senza scampo.
Non bisogna tuttavia perdere la lucidità: analizziamo i limiti.
Mi sono chiesta, infatti, quanto una storia del genere possa essere verosimile. E quanto risulti credibile il personaggio di Renèe. Potrebbe davvero una portinaia erudita e imbevuta di filosofia dissimulare così bene la propria cultura? E perché, poi? Potrebbe, da autodidatta (con gli studi fermi alla quinta elementare) raggiungere la capacità di leggere Heidegger e di confutarlo? La vita ha in sé grandi sacche di imprevisto e di meraviglioso, direbbe Antonio Moresco, molto più di certa letteratura piattamente “realistica”, ma nel profondo non ne sono del tutto persuasa.
Questo romanzo mi piace perché mi fa sognare a occhi aperti, celebra la lettura (che è la mia più grande passione), riscatta gli ultimi (la portinaia, l’adolescente incompresa), deride l’èlite della società mettendone a nudo difetti e pochezza, dà speranza alla cultura: ma quanto, quanto siamo lontani dalla realtà?
Del resto, solo la discesa, dall’alto di un deus ex machina, riesce a smuovere la lenta moria di Renèe e Paloma. La maturazione dei due personaggi avviene perché innescata dall’esterno, da avvenimenti casuali e, nel caso della portinaia, anche tardivi.
In ogni caso, è un romanzo che consiglio. Godurioso. Ben scritto. Ben strutturato.

Zoom
A proposito di rispecchiamenti…
Vi propongo un passo in cui mi riconosco e in cui vedo lo spirito dell’Infeltrita. Che è una lettrice amatoriale, appassionata, non professionista. Un credo che sottoscrivo insieme a tutti i dubbi e i limiti che un dilettante non smette di sollevare.
Ho letto tanti libri….
Eppure, come tutti gli autodidatti, non sono mai sicura di quello che ho capito. Un giorno mi sembra di abbracciare con un solo sguardo la totalità del sapere, come se all’improvviso invisibili ramificazioni nascessero, e intrecciassero fra loro tutte le mie letture sparse – poi subito il senso scivola via, l’essenziale mi sfugge, e per quanto rilegga le stesse righe ogni volta mi appaiono più inafferrabili, mentre io mi vedo come una vecchia pazza che crede di avere la pancia piena soltanto perché ha letto attentamente il menù. Pare che questa competenza di talento e cecità sia il tratto distintivo dell’autodidatta. Pur privando il soggetto della guida sicura che ogni buona formazione fornisce, gli dona tuttavia libertà e capacità di sintesi del pensiero, laddove i discorsi ufficiali frappongono barriere e vietano l’avventura.
Che dire di più?
Per stasera niente, vi saluto così.




giovedì 16 ottobre 2014

"La congiura dello speziale", esordio di Mauro Santomauro



Titolo: La congiura dello speziale
Sottotitolo: Un grande thriller
Autore: Mauro Santomauro
Editore: Libro/mania gruppo DeAgostini
Pubblicazione: maggio 2014
Pagine: 261
Genere: thriller
Formato: e-book
IBSN9788898562428
 Costo:  3,99

E-book disponibile in formato Epub e Mobi su:
Amazon, Ibs, BookRepublic, Kobo, LaFeltrinelli,
LibreriaRizzoli,UltimaBooks, GooglePlay,Net-Ebook, FeedBook

Oggi finalmente vi presento “La congiura dello speziale”, il romanzo d’esordio di Mauro Santomauro, un autore davvero poliedrico: nella sua vita è stato farmacista, chimico, distillatore, imprenditore, contadino; per passione e divertimento si è dedicato a numerosi sport, al jazz, alle immersioni e persino all’aviazione. La ricchezza esperienziale di un vissuto tanto stimolante emerge in una scrittura barocca, ironica, indisciplinata, in una storia che apre tante parentesi e tanti excursus, e lascia il lettore stupito, come di fronte a una cinquecentesca camera delle meraviglie, in cui si affastellano oggetti antichi e indecifrabili, frutto non solo di erudizione, ma anche di inesausta curiosità.
Da subito sono stata attratta dal titolo che poneva al centro la figura dello speziale, riportandomi indietro nel tempo e lontano nello spazio. Qualche anno fa, infatti, ho avuto modo di visitare il Museo della Scienza e della Tecnica di Monaco di Baviera e, fra tutte le attrazioni che mi hanno colpito, quella che meglio ricordo è stata la ricostruzione di un’antica farmacia con scomparti lignei e vasi dalle etichette dipinte, ciascuna indicante la propria “spezia”. Vi leggevo senso d’ordine ma anche mistero, il fascino di un’antica sapienza istintivamente associata alla capacità di cura, un po’ scienza, un po’ magia.
Ecco, in questo romanzo mi è sembrato di ritrovare la stessa atmosfera! 
Incipit
Venezia, Ponte di Rialto, 4 dicembre 1537
Lodovico scese lentamente i gradini del Ponte, un po’ inquieto al
pensiero che, proprio in quel punto, suo cugino Vincenzo Quadrio
fosse morto nel crollo del precedente viadotto in legno che univa le
due rive del Canal Grande.
Sembrava che un destino beffardo, o forse solo l’imprevidenza e
l’ignavia degli uomini, non volesse che il mercato di Rialto (punto
nevralgico degli affari, dei commerci e cuore politico di Venezia)
avesse il suo ponte…
L’infeltrita
"La congiura dello speziale" è un viaggio nel tempo, ma non solo. Dopo un incipit di sapore decisamente storico, irrompe il presente. La giornalista Fedora Milano è costretta a tornare a Venezia, sua città natale, benché ad essa associ ricordi dolorosi. Deve intervistare il proprietario di un’antica spezieria - “Alla Vecchia e Al Cedro Imperiale” – il quale ha deciso coraggiosamente di non spostare la sua attività sulla terraferma, ma di rispettare la tradizione, continuando a gestirla là dove è sempre stata. L’incontro è diverso da ciò che si aspettava. Di fronte a sé ha un giovane affascinante e maliardo, Niccolò Bellavitiis, e l’antica spezieria che custodisce è un Paese delle Meraviglie ricco di attrazioni, misterioso agli occhi di un profano, ma anche pericoloso.
In particolare, la giornalista viene attirata da un contenitore in peltro: la Theriaca. In essa, un medicamento che tutto cura: il motore della macchina narrativa! 
Su tutto il romanzo aleggia fortissimo il sentore dell’alchimia. Di una scienza che nasconde, che rivela solo a pochi. Lo speziale, occhi di ghiaccio, protagonista indiscusso del romanzo, è un uomo enigmatico. Disinvoltamente si muove fra i segreti delle piante, dei minerali, delle sostanze, della vita e della morte. Si interroga e ci interroga sulla funzione della scienza, in particolare della medicina. Rimette in discussione le categorie di "naturale" e "artificiale". Appare curioso e mai sazio di vita e di esperienze. Assomiglia (forse) all'autore del romanzo che in lui ha voluto far rivivere gran parte delle proprie passioni. 
Mentre la narrazione scorre si aprono numerose porte, piani temporali diversi; ritroviamo scampoli del passato della Serenissima, tessere della storia della medicina e della farmacopea. Un apparato di note guida il lettore nell’esplorazione di campi che per lui potrebbero essere impervi. Il gusto per l’antiquaria è sostanziato, nelle pagine finali, da una bibliografia che dichiara le fonti utilizzate. Storia e finzione si mescolano. Come pure scienza e magia. In un caleidoscopio che sorprende, ma non ci risparmia omicidi e macabre scoperte.
Il colpo di scena arriva al capitolo 34 - e non lo svelo! E non vi svelo il finale, aperto al punto giusto...
Il ritmo narrativo rallenta sotto il peso delle digressioni, ma non le ritengo superflue. Esse danno coerenza al protagonista - lo speziale - custode di tradizioni antiche, portatore di un’esperienza centenaria. Per lo stesso motivo, mi piace la scelta di uno stile barocco e di una scrittura che ricerca un lessico prezioso: rispecchiano l’oggetto della narrazione. L’ipotassi è spesso utilizzata in chiave ironica e l’ironia, di certo, non manca a Fedora Milano che se ne serve costantemente, risultando alla lunga un personaggio un po’ freddo, distaccato anche di fronte ad avvenimenti tragici e cruenti.
Fedora Milano è tuttavia un personaggio in evoluzione, che cresce e che si merita il finale riservatole. 

Perché mi è piaciuto
Mi sono messa in viaggio e mi è dispiaciuto arrivare alla fine.
L’atmosfera decadente della Serenissima, l’eleganza un po’ sfatta dell’Orient Express (ricordo di un viaggio romantico di Fedora), l’odore di cera d’api e trementina, il Cioccolatte, le salamandre (per capire di cosa parlo, leggete il romanzo!) la fantasmagoria dell’orologio botanico - meccanismo ingegnoso e inquietante che Bellavitiis mostra a Fedora - hanno rimpinguato ben bene la mia immaginazione, solleticando svariati punti deboli... non ultimo l’interesse per la Storia della Scienza, una disciplina spesso bistrattata nelle Facoltà cosiddette scientifiche, ma di fatto affascinante e utile.
A chi lo consiglio
Consiglio questo libro a chi ama leggere di misteri, atmosfere del passato e delitti. A chi non ha fretta. Lo consiglio a chi ama mescolare ingredienti, colori, profumi, erbe officinali, emozioni, storia e fantasia. A chi vuole riflettere sulla scienza, guardandola….da un altro punto di vista!


martedì 14 ottobre 2014

Una mutevole verità. Romanzo o cronaca?

Oggi vi propongo una recensione davvero mini. Infeltrita più del solito.
Ho letto al volo un giallo di Gianrico Carofiglio, trovato in giro per casa: Una verità mutevole, edito da Einaudi Stile Libero Big (giugno 2014).

Mi ha colpito una noticina a caratteri minuti fra le pagine di guardia: “Edizione realizzata in collaborazione con l’Ente editoriale dell’Arma dei Carabinieri in occasione del Bicentenario dei Carabinieri”. L’autore non è tra i miei preferiti, ma anni fa ho apprezzato Il passato è una terra straniera, un noir ambientato in una Bari notturna e cupa, molto diversa da quella allegra e chiassosa che allora frequentavo quotidianamente con la spensieratezza della studentessa universitaria innamorata dei colori delle vetrine e delle bancarelle del centro (incensi, bracciali, anelli, sculture in legno, diari, specchi, sciarpe, occhiali, cappelli.)

Incipit
“Cardinale Lorenzo detto ‘u tuzz – cioè la «testata» - era un rapinatore, specializzato in banche e uffici postali. Lui e i suoi complici avevano una tecnica efficace: rubavano un’auto di grossa cilindrata, o addirittura un camion; aspettavano l’orario di chiusura al pubblico, quando le casseforti erano aperte, i sistemi di sicurezza da tempo disattivati e gli impiegati contavano il denaro. Allora lanciavano l’auto – o il camion – a marcia indietro contro la vetrina blindata, la sfondavano, entravano armi in pugno, prendevano il denaro e andavano via. Ovviamente con una macchina diversa.”

L’Infeltrita
Una mutevole verità è un romanzo breve e asciutto, un poliziesco classico che procede senza sbavature dalla registrazione di un omicidio alla risoluzione del caso. Nel cuore della storia il messaggio è subito dichiarato: la verità è ricerca, è uno scavo che richiede pazienza, attenzione ai dettagli ma non al superfluo. Quando la verità è troppo evidente bisogna alzare la guardia. Proprio allora, infatti, c’è il rischio di un pericoloso abbaglio.
L’indagine è condotta dal maresciallo dei carabinieri Pietro Fenoglio. Nomen omen dicevano gli antichi e lui, in ossequio all'illustre cognome, ama leggere, frequenta librerie e ascolta musica classica, vorrebbe studiare lettere e prima o poi lo farà.
Fenoglio è un uomo attento, di grande umanità, capace di tenersi discosto dalla violenza che il suo mestiere gli pone davanti, sia essa frutto di un reato, sia essa metodo d’indagine usato e abusato dai colleghi. Non ha pregiudizi Fenoglio, perciò non si fida delle apparenze. E se l’istinto lo porta a dubitare di qualcosa o di qualcuno non lo asseconda alla cieca, ma prova a mettere in discussione l’impalcatura di certezze razionali che ha costruito, ne saggia la tempra. Se l’edificio tiene la certezza è fondata, se scricchiola, l’istinto ha avuto ragione e bisogna cercare nuove piste, altre tracce; Fenoglio non si tira indietro. È un buon carabiniere, di quelli che chiunque si augurerebbe di incontrare davanti. Sembrano capirlo tutti, persino i pregiudicati.
Nelle ultime pagine, come un’ombra, fa la sua comparsa una vecchia conoscenza dei lettori di Carofiglio: l’avvocato Guerrieri, protagonista di molti altri romanzi. Qui è una comparsa, quasi una citazione, eppure sembra avere il merito indiretto di portare l’assassino alla confessione. 
Sullo sfondo c’è Bari: i luoghi, però, scorrono senza ingombrare. Non sono protagonisti. Qui c’è via Sparano, lo shopping, le vetrine, i profumi delle signore. Lì il Petruzzelli ancora in piedi. La chiesa russa, qualche parola su San Nicola da Mira. Siamo alla fine degli anni Ottanta, pochi passaggi ce lo dicono: la Ritmo del maresciallo, i cappotti dalle ampie spalline, il profumo Poison di Dior. Nulla che ecceda. Nulla che indulga verso un lirismo puramente ornamentale. La storia potrebbe essere ambientata a Roma o a Firenze o a Vercelli, resterebbe in piedi perfettamente.
Lo stile ha la puntualità dei verbali. La scelta dei sostantivi e dei verbi affonda in un italiano standard quasi asettico. Aggettivi e avverbi hanno una funzione informativa, giammai espressiva: non servono a emozionare, ad abbellire, a colorire, a enfatizzare. Solo a precisare. La scrittura è in funzione della storia che deve emergere - come emerge! - in primo piano, nitida e chiara. 

Lo consiglio a chi NON ama libri lunghi, trame complesse, colpi di scena fini a se stessi.
 

Zoom
Sulle prime il romanzo mi è sembrato un po’ anemico. Freddo.

“Le date, i nomi, i luoghi indicati in questo romanzo sono di fantasia. I fatti sono realmente accaduti, altrove”. La lettura di questa postilla mi ha, in parte, rassicurato. Ho avuto la sensazione che Carofiglio abbia voluto raccontarci un pezzo di cronaca, camuffato. Se è così lo scuso. Viceversa avrei chiesto alla sua penna una sforzo immaginativo più grande -  e più calore. Un personaggio come Pietro Fenoglio non glielo avrebbe di certo impedito.  

domenica 12 ottobre 2014

InNova: la rubrica che apre la mente.

Cari lettori, come state?

Io bene, benché oberata di lavoro. Oggi non voglio "infeltrire" una recensione ma parlarvi della rubrica InNova, la vetrina delle voci nuove. 
In questi giorni ho avuto modo di ricevere quattro romanzi di scrittori emergenti e, mentre tenevo a bada l'entusiasmo che l'accumulo di libri nuovi sempre mi provoca, ho cominciato a sfogliarne le prime pagine, alcune virtualmente, perché si tratta di e-book, altre tradizionalmente perché in formato cartaceo. 

Subito mi sono data un ordine di lettura e lanciata a capofitto nella prima storia, un noir ambientato a Venezia nel mondo affascinante delle antiche spezierie:"La congiura dello speziale" di Mauro Santomauro per la casa editrice LIBROMANIA (per la quale, se ricordate, avevo già recensito un giallo che mi era piaciuto molto VAI). Vi anticipo solo che questa esperienza di lettura mi sta conducendo su e giù nel tempo e, al di là dell'intreccio, sto scoprendo tanti curiosi aneddoti sulla storia della medicina, della farmacia e della Serenissima.

Successivamente leggerò "Apoptosis" del giovanissimo Renato Mite, un romanzo di fantascienza che affronta il tema della responsabilità della scienza e degli scienziati, a partire da una storia che sembra piuttosto inquietante.

Quindi sarà il turno di un fantasy che prende le mosse dal lontano 1569 e da una cornice storica:  "Glenvion. La matrice" primo volume di una saga ideata da Alessandro Falzani. Sarà per me una novità nel vero senso della parola, perché è da moltissimo tempo che non leggo un romanzo di questo genere.

In ultimo, vi presenterò "Anche i fiori amano il sesso" di Marianna Iodice - scrittrice e professionista della comunicazione - che racconta il mondo complicato, un po' goffo e comunque straordinariamente autentico di un gruppo di studentesse universitarie alle prese con la sfida più grande: crescere.

Voglio condividere con voi alcune brevi considerazioni che ho ricavato da questa immersione nella novità.
Ho davanti a me il noir, la fantascienza, il fantasy e il romanzo introspettivo-psicologico (a me più familiare): una varietà di generi che, normalmente, mi sarei preclusa. 
Se c'è una cosa che ho imparato dalla rubrica InNova è che spesso i gusti personali di un lettore (sacrosanti e formatisi attraverso un lungo processo) diventano vere e proprie barriere che impediscono esplorazioni in terre nuove. Quando vado in libreria non compro fantascienza e non compro fantasy, lo ammetto. Ho riallacciato una relazione (per quanto problematica!) con i gialli e i noir da poco tempo. Mi spingo verso territori altri, come vi mostrano le infeltrite accumulatesi in questi mesi.
In realtà, leggere percorrendo strade diverse dalle solite non è affatto male! 
I libri che vi presenterò nei prossimi giorni rivelano a me un immaginario nuovo, mi ispirano idee, fantasie, considerazioni che diversamente non avrei sviluppato. Si tratta di un arricchimento, di un confronto, di un'esperienza stimolante che forse, se non ci fosse stato il Blog, non avrei potuto vivere. E quindi, a prescindere e prima di qualunque recensione, ringrazio col cuore chi mi ha permesso di conoscere il frutto del proprio lavoro, il fiore della propria fantasia. 














































giovedì 9 ottobre 2014

L'incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio

Amici cari, scrivere è sempre un piacere, ma che fatica quando le urgenze del quotidiano, il lavoro e la stanchezza incalzano sottraendo tempo e forze alle mie infeltrite!
Oggi, però, ho voluto a tutti i costi ritagliarmi un piccolo spazio sul finire di questo pomeriggio autunnale straordinariamente limpido, per parlarvi della mia ultima lettura.
Dal momento che anche per quest’anno Murakami Haruki NON ha ottenuto il premio Nobel per la letteratura, benché fosse tra i più quotati nel TotoNobel, ho pensato di occuparmi di lui e del suo ultimo lavoro: “L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio”, edito da Einaudi e tradotto da Antonietta Pastore. Consideriamolo una sorta di risarcimento a me stessa e alle inutili speranze elargite: nonostante diverse delusioni, Murakami ha sempre un posto speciale nel mio cuore.
Il titolo a qualcuno è parso profetico: il romanzo è fumoso, dall’andamento ondivago, con un finale sospeso, più che aperto, e complessivamente (forse volutamente?) INCOLORE. È il giudizio che si ricava, per esempio, da questa bella recensione che ho avuto modo di leggere un po’ di tempo fa: De inanitate, autore Pino Sabatelli.
Nel romanzo, tuttavia, vi sono spunti e suggestioni che mi piacciono. Se ne volete sapere di più, eccovi la “recensione infeltrita” della giornata.

Incipit
Dal mese di luglio del suo secondo anno di università fino al gennaio seguente, Tazaki Tsukuru aveva vissuto con un solo pensiero in testa: morire. Nel frattempo aveva compiuto vent’anni, ma raggiungere la pietra miliare della maggiore età non era stato per lui un evento particolarmente significativo. Metter fine ai suoi giorni gli sembrava la cosa più naturale e coerente. Per quale motivo, però, non avesse fatto quell’ultimo passo, ancora oggi non riusciva a capirlo. E dire che in quel periodo attraversare la soglia che separa la vita dalla morte sarebbe stato più facile che bere un uovo dal guscio!
L’Infeltrita
Le mal du pays di Liszt, nella sua traduzione italiana Gli anni di pellegrinaggio” è la colonna sonora di questo romanzo. Un tema musicale, come sempre, poco noto, presentato in una esecuzione raffinata. Murakami non si smentisce. Affida alla musica l’atmosfera di fondo della narrazione: la nostalgia, una tristezza cheta ma cronica, che porta il protagonista a rimpiangere il suo paese, la per sempre perduta adolescenza che è terra di perfezione, di armonia ideale, di amicizia pura-incorruttibile-asessuata. Una terra che si deve abbandonare prima o poi, raccogliendo le proprie forze, sporcandosi, corrompendosi. 
In una parola, crescendo.
Crescere è come morire: si cambia aspetto, dimora, affetti, pensieri, prospettive. Si distrugge quello che c’era prima, ed è sempre tragico. Tazaki Tzukuru cresce dopo essere stato abbandonato dai suoi quattro amici. Espulso dal cerchio perfetto di un gruppo pieno di ideali, di colori, di personalità disposte a reprimere i propri impulsi pur di preservare un’armonia senza dissonanze.
L’esperienza del rifiuto o dell’abbandono è una tappa che tutti prima o poi si trovano a vivere e, dal punto di vista di chi la subisce, essa ha sempre la forza schiacciante di un’ingiustizia che resta inspiegabile e priva di senso. Qualcuno reagisce involvendo: attraversa più o meno metaforicamente la soglia che separa la vita dalla morte e perde le forze vitali. Altri, invece, dopo un periodo di “pellegrinaggio” per lande desolate, evolve. La maturità, spesso, è un processo che passa attraverso eventi dolorosi e improvvisi.
È quello che accade al protagonista, Tazaki Tzukuru. Il suo nome significa “costruire” e rispecchia per puro caso il suo talento: progettare stazioni. È un ingegnere, ha 36 anni. Da tempo sente di essere “incolore”, privo di personalità, una convinzione che ha maturato anche da quando, senza una spiegazione, i quattro amici del liceo lo hanno allontanato, pregandolo di non cercarli più. A vent’anni delusioni del genere fanno desiderare la morte, come ci mostra l’incipit un po’ fosco che vi ho riportato. Tazaki Tzukuru, però, non muore, cresce.
Attraversa “anni di pellegrinaggio”, vaga cercando di rimettere insieme i cocci sconnessi della sua anima, costruendo pian piano la sua identità di adulto. Il processo sarà terminato solo quando avrà ritrovato gli amici di allora, ormai cresciuti, e chiarito le ragioni dell’allontanamento imposto.
"Una realtà parallela, che poteva nascere soltanto dalla forza di un'immaginazione
 liberata in un momento particolare, in un luogo particolare."
Un romanzo ibrido. Da un lato, la vena intimistica e delicata che fu di Norwegian Wood (ma senza la stessa coerenza), dall’altro sequenze narrative in cui la dimensione reale e quella onirica si sfiorano accennando a un mistero, fino alla fine non risolto,che confonde il lettore.
Come in altri romanzi di Murakami, l’inconscio e le pulsioni irrazionali si materializzano assumendo forme concrete (gnomi malvagi, sogni che non sono mai del tutto tali, figure che sbucano dal passato, dita amputate, avatar notturni) che trovano posto accanto alla quotidianità più ordinaria. Non tutto si riesce a capire o a interpretare con coerenza, a volte si ha l’impressione che ci siano capitoli superflui oppure talmente eccentrici che sembrano non incastrarsi nella trama, ma fungere da distrattori.
Tazaki Tsukuru ha scarsa stima di sé, si percepisce insignificante, ma in realtà è l’unico capace di scegliere, di seguire le proprie aspirazioni. I quattro amici perfetti e “colorati” alla fine ripiegano su esistenze non profondamente desiderate. Al lettore, in ogni caso, sembra di muoversi tra personaggi scialbi.
Il protagonista è snervante: accetta di farsi allontanare da un gruppo senza neppure domandarne la ragione; trascorre quindici anni della sua vita con un dolore sordo e congelato nel cuore ma non lo affronta; accetta passivamente la solitudine impostagli dagli altri e solo dopo essere stato insistentemente sollecitato da Sara, un’amica a cui scopre di voler bene, decide di sollevare il coperchio dell’anima per guardarvi le verità nascoste.
Il personaggio vive i suoi 36 anni fluttuando, si pone poche domande o se le pone con scarsa convinzione; anche quando si mette in viaggio alla ricerca del proprio passato sembra che in lui le passioni siano del tutto congelate. Spesso non capisce quello che gli accade, ma non vi dà peso.
Il lettore, invece, ne ricava frustrazione. Registra insensatezza in taluni eventi (inconclusi) e si chiede perché l’autore abbia voluto inserirli per poi lasciarli sospesi.
Il finale aperto è in linea con questa vaghezza, probabilmente ricercata di proposito, ma alla fine dei conti, un po’ deludente. Insomma, non sono sazia!!!
La prosa, invece, anche nella traduzione di Antonietta Pastore (ero abituata alla penna di Giorgio Amitrano!) mi piace tanto. Limpida, quasi a compensare il torbido della narrazione, è un piacevole abbraccio, una voce che non affatica. Con i suoi mezzi toni, le sfumature delicate è l’elemento che più mi ricorda Norwegian Wood.
Non tutto è perduto, dunque, in questo romanzo “sospeso”.

Zoom
Passaggi improvvisi guizzano nella lettura ed eccomi, con la matita, a sottolineare come una matta, per fare mia una frase, una sfumatura, un punto fermo. Da lettrice, amo ritrovarmi in ciò che leggo.
Tsukuru cercava di calcolare quanto tempo la gente sprecasse ogni giorno nei tragitti. Mediamente, da un’ora a un’ora e mezza per andare e altrettanto per tornare. Più o meno. Un comune impiegato sposato, con uno o due figli, e che lavorava in centro, se voleva avere una casa di proprietà doveva rassegnarsi a vivere in un quartiere periferico raggiungibile in quel lasso di tempo come minimo. Quindi delle ventiquattro ore della giornata due o tre se ne andavano solo per spostarsi avanti e indietro dal posto di lavoro. Nei treni affollati, se era fortunato, riusciva a leggere il giornale o un tascabile. Forse era anche possibile ascoltare sull’iPod le sinfonie di Haydn, o studiare conversazione spagnola. O magari, per alcuni, chiudere gli occhi e abbandonarsi a riflessioni metafisiche. Tuttavia, in generale, era difficile considerare quelle due o tre ore al giorno un tempo utile. In un’esistenza umana, quanto tempo veniva rubato da quegli spostamenti (probabilmente) privi di significato? 
In quale misura tutto questo causava stress e fatica?
Et voilà sono proprio io, cari amici: una pendolare che legge, sonnecchia, spende sugli autobus il meglio della propria giornata e non si rassegna.
Nel brano scelto, tuttavia, non c’è solo la mia fatica quotidiana, c’è forse anche il perché Murakami abbia speso tante pagine in particolari inutili e in sequenze narrative senza sviluppo. Esse sono come le ore trascorse sui mezzi pubblici, insensate e necessarie. Parti della vita in cui il tempo si spreca, nostro malgrado, ma di cui non ci si può liberare.
Non si può raccontare la vita, ed essere credibili, senza raccontarne il tempo perso.

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