Amici cari, scrivere è sempre un piacere, ma che fatica
quando le urgenze del quotidiano, il lavoro e la stanchezza incalzano sottraendo tempo e forze alle mie infeltrite!

Dal momento che anche per quest’anno Murakami Haruki NON ha
ottenuto il premio Nobel per la letteratura, benché fosse tra i più quotati nel TotoNobel, ho pensato di occuparmi di lui e
del suo ultimo lavoro: “L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di
pellegrinaggio”, edito da Einaudi e tradotto da Antonietta Pastore. Consideriamolo una sorta di risarcimento a me stessa e alle inutili
speranze elargite: nonostante diverse delusioni, Murakami ha sempre un posto speciale
nel mio cuore.
Il titolo a qualcuno è parso profetico: il romanzo è fumoso,
dall’andamento ondivago, con un finale sospeso, più che aperto, e
complessivamente (forse volutamente?) INCOLORE. È il giudizio che si ricava,
per esempio, da questa bella recensione che ho avuto modo di leggere un po’ di
tempo fa: De inanitate, autore Pino Sabatelli.
Nel romanzo, tuttavia, vi sono spunti e suggestioni che mi
piacciono. Se ne volete sapere di più, eccovi la “recensione infeltrita”
della giornata.
Incipit
“Dal mese di luglio del suo secondo anno di università fino al gennaio
seguente, Tazaki Tsukuru aveva vissuto con un solo pensiero in testa: morire. Nel
frattempo aveva compiuto vent’anni, ma raggiungere la pietra miliare della
maggiore età non era stato per lui un evento particolarmente significativo. Metter
fine ai suoi giorni gli sembrava la cosa più naturale e coerente. Per quale
motivo, però, non avesse fatto quell’ultimo passo, ancora oggi non riusciva a
capirlo. E dire che in quel periodo attraversare la soglia che separa la vita
dalla morte sarebbe stato più facile che bere un uovo dal guscio!”
L’Infeltrita
Le mal du pays di
Liszt, nella sua traduzione italiana “Gli anni di pellegrinaggio” è la colonna
sonora di questo romanzo. Un tema musicale, come sempre, poco noto, presentato
in una esecuzione raffinata. Murakami non si smentisce. Affida alla musica l’atmosfera
di fondo della narrazione: la nostalgia, una tristezza cheta ma cronica, che
porta il protagonista a rimpiangere il suo paese, la per sempre perduta
adolescenza che è terra di perfezione, di armonia ideale, di amicizia
pura-incorruttibile-asessuata. Una terra che si deve abbandonare prima o poi,
raccogliendo le proprie forze, sporcandosi, corrompendosi.
In una parola,
crescendo.
Crescere è come morire: si cambia aspetto, dimora, affetti,
pensieri, prospettive. Si distrugge quello che c’era prima, ed è sempre tragico. Tazaki Tzukuru cresce dopo essere stato abbandonato dai suoi
quattro amici. Espulso dal cerchio perfetto di un gruppo pieno di ideali, di
colori, di personalità disposte a reprimere i propri impulsi pur di preservare un’armonia
senza dissonanze.
L’esperienza del rifiuto o dell’abbandono è una tappa che tutti
prima o poi si trovano a vivere e, dal punto di vista di chi la subisce, essa
ha sempre la forza schiacciante di un’ingiustizia che resta inspiegabile e
priva di senso. Qualcuno reagisce involvendo: attraversa più o meno
metaforicamente la soglia che separa la vita dalla morte e perde le forze
vitali. Altri, invece, dopo un periodo di “pellegrinaggio” per lande desolate, evolve.
La maturità, spesso, è un processo che passa attraverso eventi dolorosi e
improvvisi.
È quello che accade al protagonista, Tazaki Tzukuru. Il suo
nome significa “costruire” e rispecchia per puro caso il suo talento:
progettare stazioni. È un ingegnere, ha 36 anni. Da tempo sente di essere “incolore”,
privo di personalità, una convinzione che ha maturato anche da quando, senza una
spiegazione, i quattro amici del liceo lo hanno allontanato, pregandolo di non
cercarli più. A vent’anni delusioni del genere fanno desiderare la morte, come
ci mostra l’incipit un po’ fosco che vi ho riportato. Tazaki Tzukuru, però, non
muore, cresce.
Attraversa “anni di pellegrinaggio”, vaga cercando di
rimettere insieme i cocci sconnessi della sua anima, costruendo pian piano la
sua identità di adulto. Il processo sarà terminato solo quando avrà ritrovato gli amici di allora, ormai cresciuti, e chiarito le ragioni dell’allontanamento
imposto.
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"Una realtà parallela, che poteva nascere soltanto dalla forza di un'immaginazione liberata in un momento particolare, in un luogo particolare." |
Un romanzo ibrido. Da un lato, la vena intimistica e delicata
che fu di Norwegian Wood (ma senza la stessa coerenza), dall’altro sequenze narrative
in cui la dimensione reale e quella onirica si sfiorano accennando a un mistero,
fino alla fine non risolto,che confonde il lettore.
Come in altri romanzi di Murakami, l’inconscio e le pulsioni
irrazionali si materializzano assumendo forme concrete (gnomi malvagi, sogni
che non sono mai del tutto tali, figure che sbucano dal passato, dita amputate,
avatar notturni) che trovano posto accanto alla quotidianità più ordinaria. Non
tutto si riesce a capire o a interpretare con coerenza, a volte si ha l’impressione
che ci siano capitoli superflui oppure talmente eccentrici che sembrano non
incastrarsi nella trama, ma fungere da distrattori.
Tazaki Tsukuru ha scarsa stima di sé, si percepisce
insignificante, ma in realtà è l’unico capace di scegliere, di seguire le
proprie aspirazioni. I quattro amici perfetti e “colorati” alla fine ripiegano
su esistenze non profondamente desiderate. Al lettore, in ogni caso, sembra di muoversi tra personaggi
scialbi.
Il protagonista è snervante: accetta di farsi allontanare da
un gruppo senza neppure domandarne la ragione; trascorre quindici anni della
sua vita con un dolore sordo e congelato nel cuore ma non lo affronta; accetta
passivamente la solitudine impostagli dagli altri e solo dopo essere stato insistentemente
sollecitato da Sara, un’amica a cui scopre di voler bene, decide di sollevare
il coperchio dell’anima per guardarvi le verità nascoste.
Il personaggio vive i suoi 36 anni fluttuando, si pone poche
domande o se le pone con scarsa convinzione; anche quando si mette in viaggio
alla ricerca del proprio passato sembra che in lui le passioni siano del tutto
congelate. Spesso non capisce quello che gli accade, ma non vi dà peso.
Il lettore, invece, ne ricava frustrazione. Registra
insensatezza in taluni eventi (inconclusi) e si chiede perché l’autore abbia
voluto inserirli per poi lasciarli sospesi.
Il finale aperto è in linea con questa vaghezza, probabilmente
ricercata di proposito, ma alla fine dei conti, un po’ deludente. Insomma, non
sono sazia!!!
La prosa, invece, anche nella traduzione di Antonietta
Pastore (ero abituata alla penna di Giorgio Amitrano!) mi piace tanto. Limpida,
quasi a compensare il torbido della narrazione, è un piacevole abbraccio, una voce
che non affatica. Con i suoi mezzi toni, le sfumature delicate è l’elemento che
più mi ricorda Norwegian Wood.
Non tutto è perduto, dunque, in questo romanzo “sospeso”.
Zoom
Passaggi improvvisi guizzano nella lettura ed eccomi, con la
matita, a sottolineare come una matta, per fare mia una frase, una sfumatura,
un punto fermo. Da lettrice, amo ritrovarmi in ciò che leggo.

In quale misura tutto questo causava
stress e fatica?”
Et voilà sono proprio io, cari amici: una pendolare che
legge, sonnecchia, spende sugli autobus il meglio della propria giornata e non
si rassegna.
Nel brano scelto, tuttavia, non c’è solo la mia fatica quotidiana,
c’è forse anche il perché Murakami abbia speso tante pagine in particolari
inutili e in sequenze narrative senza sviluppo. Esse sono come le ore trascorse sui mezzi pubblici,
insensate e necessarie. Parti della vita in cui il tempo si spreca, nostro
malgrado, ma di cui non ci si può liberare.
Non si può raccontare la vita, ed essere credibili, senza raccontarne il
tempo perso.
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