"…se penso
a chi è la gente ricca
adesso, a cosa
gli costa il capitale
mi convinco che tutto si
complica, anche il male "
Le strade che mi conducono ad amare i versi di un poeta sono
sempre piuttosto eccentriche. A volte è l’aprirsi casuale di un varco che mi
spinge a oltrepassarne la soglia per entrare in una poetica che, diversamente, senza quell’incontro accidentale, mi sarebbe rimasta indifferente o solo
incasellata in categorie letterarie scolasticamente recepite.
Sono arrivata a Giovanni Raboni partendo dai versi che ho
riportato in epigrafe. Versi estrapolati malamente, senza rispetto per la metrica,
tratti dal componimento “Una volta”, della raccolta Le case della Vetra
(1955-1965). Nel fluire della poesia, della sua unica strofa, mentre li leggevo
a bassa voce, con dizione sporca, nella solitudine della casa, in cerca della
compagnia discreta che solo i poeti sanno dare, si è fissato nella mente, d’improvviso,
questo passaggio, strappando al mio volto un sussulto appena percettibile, un
rapido dilatarsi delle pupille, il tendersi dei muscoli occipitali e un respiro
appena più profondo.
La musicalità, il ritmo degli enjambement, ma soprattutto la
rima, liquida e distesa, unica nell’intero componimento, hanno avuto la forza
di fermare, in un lampo, un concetto che, mi è sembrato, fotografare un’epoca.
Il cambiamento nel suo incipit.
E ho pensato alla forza della poesia, alle parole che
possono con il loro peso semplificare la complessità senza svilirla,
raccontarla sublimandola e non abbassandola, analizzarla icasticamente e con
pulizia. Rendere bello un tema poco lirico, anzi arido, se non deprimente. Il
capitale.
Torniamo al concetto di partenza. È la profezia di Tomasi di Lampedusa che si avvera:
tramontata l’epoca dei gattopardi è arrivata l’epoca degli sciacalli. E Milano,
protagonista di molta poesia del Raboni, ne è lo scenario perfetto: Milano
capitale di economia politica che applica la legge della domanda e dell’offerta
sui salari, sulle teste degli operai e forma le nuove generazioni di borghesi
rampanti, coprendone “ i santi moti del
cuore”, perché siano uomini lucidi e spassionati coi colletti rotondi e inamidati
“…a
diciotto, diciannove anni e nessuno/ che ci dicesse sul muso “stronzi”, il
nostro modo/ di rivoltarci era quello, il conformismo, / la pacatezza, il
freddo disgusto/ per le intemperanze giovanili; aver schifo della rivoluzione…”
(Lezioni di economia politica, da Le case della Vetra). Il mondo dell’economia,
la Borsa, le multinazionali, i “vaghi
scandali” trovano qui spazio poetico (ma come ci riesce?) e critica: siamo
nei primi anni Sessanta e la crescita modifica la percezione dei luoghi, le
relazioni, i valori. La frenesia che sottende il vuoto. Milano è agli occhi dei
viaggiatori “una gabbia di matti, dove/
non cadrebbe uno spillo/ anche se poi, a scoppiare è proprio il vuoto”. (Proprio
il vuoto, da Le case della Vetra).
Ritrovo in questa raccolta poetica la genesi di quella cultura
grigia, sotto la cui egida la mia generazione è nata, spesso priva di
anticorpi, non più capace di discuterla o anche solo di rilevarla. Esempio: “Realtà / è lo squallore dei viaggi, la
carriera mal digerita, / le raccomandazioni che non servono a niente/ o
arrivano in ritardo; è avere invece / dello stagno grigio e mattutino, pieno /
di pigra cacciagione, / questo sporco catino dove mi lavo le mani” (Pozio
P., da Le case della Vetra). In questi versi, che volli sottolineare e che
spesso mi trovo a rileggere o a citare, ritrovo il manifesto di un pensiero
dominante, annidato dappertutto: “ …E
così niente abbracci/ al baritono negro, allo scienziato/ ebreo per parte di
madre, niente fiori/ sulle fosse o rimproveri sgarbati/ agli aguzzini. Quando
più te l’aspetti/ torna a tirare un’aria di cappucci” (19**) . L’aria di
cappucci è tornata, io temo, o non se n’è mai andata.
Il Raboni che preferisco è questo, dunque. Il primo Raboni,
direbbero gli studiosi, quello de Le Case della Vetra. Senza metrica
tradizionale, a poche rime, capace di incursioni in un lessico poco lirico che
il ritmo rende, suo malgrado, fortemente poetico e pregnante. Giovanni Giudici,
nel 1993, in
un articolo apparso su l’Unità del 5 novembre, dirà che la sua è una fuga dal
luogo comune, dal poetico ad ogni costo, una pseudoprosa che ci rimanda alla “linea lombarda” del Parini, il
quale, come sappiamo, non disdegnava di usare, nei suoi versi, vocaboli attinti
dalla meschinità della tecnica e della scienza. Un compromesso con la materia,
con la storia, col pensiero. E tanto spazio all’ironia.

A dieci anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 16 settembre
2004, Giovanni Raboni è stato protagonista della giusta commemorazione che il
mondo della cultura rivolge ai suoi benemeriti, servendosi, oggi, sempre più
spesso degli strumenti messi a disposizione dalla Rete. E così, nei giorni
scorsi, sui principali Social Network che frequento mi sono imbattuta in
frequenti omaggi al poeta e ho avuto modo di leggere articoli disparati, quasi
tutti molto interessanti. Alcuni sottolineavano la scelta, antinovecentesca, di
tornare alla metrica chiusa, altri rievocavano la sua amicizia con Vittorio
Sereni, altri ancora ne presentavano la biografia o riproponevano il testo
integrale delle sue ultime interviste in cui egli rifletteva, con rammarico, su
quanto poco spazio l’editoria moderna lasci alla poesia e ai poeti.
Tutti, volendo proporre un testo, a titolo esemplificativo,
hanno scelto lo stesso componimento per cui mi consigliarono, sei anni fa, la
raccolta Tutte le poesie di Giovanni Raboni dal 1951 al 1998, edito da Garzanti
per la collana Gli elefanti: “Io che ho sempre adorato le spoglie del futuro…”
da Canzonette mortali. Un componimento che parla d’amore e che voglio riportare
anch’io, in parte, sebbene non sia ciò che amo di più questo autore.
“Io che adoro le
spoglie del futuro
e solo del futuro, di
nient’altro
ho qualche nostalgia
ricordo adesso con
spavento
quando alle mie
carezze smetterai di bagnarti,
quando dal mio piacere
sarai divisa e forse
per bellezza
d’esser tanto amata o
per dolcezza
d’avermi amato
farai finta lo stesso
di godere.”
![]() |
Giovanni Raboni e Patrizia Valduga |
Canzonette mortali è una raccolta dei primissimi anni
Ottanta, dedicata alla poetessa Patrizia Valduga, in cui l’amore è colto nella dimensione
erotica, sensuale. Non si tratta di canzonette morali, ma “mortali” e perciò
tutte percorse dalla dimensione struggente del presente che, con la sua
pienezza, dà nostalgia anzi tempo, tanto è breve e destinato a sfuggire, a
passare. Il presente, come l’amore, è colto nella sua dimensione caduca,
appunto… “mortale”. Il poeta vi si aggrappa con furia perché l’ossessione della
vecchiaia, il contrasto con la gioventù della donna lo angoscia: “ Nel bar pieno di gente/ giovane che saluti e
che mi guarda/ come un intruso il tuo bisbiglio/ docile e spudorato/ - vuoi che…?
– a farmi invisibile e beato.// No, non ne ho avute mille e tre – nemmeno/ seicento
e quaranta, o novantuna. / E tu quanti? Di colpo lunga o corta/ che sia la
lista, il cuore s’accartoccia,/ fa male. Eppure so che non importa” così lo
ritroviamo in preda alla fragilità che è propria di chi cede al sentimento,
senza difese. “Una ghirlanda, un foglio
per ciascuno/ degli anni che volevi dimostrare, / che non avevi ancora,/ che
hai compiuti con me”.
“Raboni ha scritto alcune delle poesie d’amore più belle di
questi anni” scrisse Attilio Bertolucci e io sono contenta di averle trovate e
lette.
Cari amici, spero che questo tuffo nella poesia non vi abbia
disorientato. Che si sia aperto un varco anche in voi. Se così è stato, vi
lascio il link del sito ufficiale del poeta dove potrete ascoltare la bellezza
di alcuni suoi versi dalla sua stessa voce: http://www.giovanniraboni.it/Default.aspx
Nessun commento:
Posta un commento