E finalmente, dopo aver preso tempo, cercato scuse,
corteggiato altri blog... mi decido a recensire, sul serio, Il tamburo di latta di Günter Grass.
Come sia giunto nelle mie mani, ormai lo sapete (e se non lo sapete, c’è tempo di rimediare: vedi Storia di una lettura sofferta)
Perché sia entrato nella mia costellazione letteraria
imprescindibile, è pure noto. Adesso non mi resta che convincere voi: a leggerlo,
se non lo avete già fatto; a commentare con me, se fa già parte del vostro archivio.
Bene, l’incipit
“Non lo nego: sono ricoverato in manicomio; il mio infermiere mi osserva di continuo, quasi non mi toglie gli occhi di dosso perché nella porta c’è uno spioncino, e lo sguardo del mio infermiere non può penetrarmi poiché lui ha gli occhi bruni, mentre i miei sono celesti..
Il mio infermiere non può dunque essermi nemico. Ho preso a volergli bene, a questo controllore appostato dietro lo spioncino. Appena mi entra nella stanza, gli racconto vicende della mia vita; così, nonostante lo spioncino che gli è d’ostacolo, impara a conoscermi” (traduzione di Lia Secci)
L’infeltrita
Come si può vedere, la narrazione prende le mosse dalle
stanze di un manicomio dove è rinchiuso il protagonista e narratore di questa
storia: Oskar Matzerath. Lo
straniamento è immediato. Il lettore comprende, fin dalle prime battute, quali
siano le regole del gioco, e cioè che il punto di vista sarà distorto e grottesco.
La prima parte del romanzo si svolge a Danzica che, nell’intervallo
di tempo fra le due guerre mondiali, è una Città Libera, dall’identità controversa,
in cui coesistono polacchi e tedeschi. La tensione fra i due popoli cresce
sottotraccia, mentre la vita quotidiana perpetua i suoi rituali più futili - partite
di skat, gite, compere, tradimenti - e la sua ipocrisia.
Oskar racconta la storia partendo dal rocambolesco
concepimento di sua madre avvenuto mentre la nonna Anna, una sorta di Grande
Madre casciuba, nasconde sotto l’enorme gonna un incendiario fuggiasco,
inseguito dalla polizia. Sotto le sue gonne primordiali, simbolo di
fecondità generosa e pacifica, la violenza del mondo si perde. La Nonna, da cui
tutto parte, sembra essere l’unica figura positiva del romanzo. Ed è il simbolo
di una Polonia rurale, semplice, di una civiltà sana che non esiste più e a cui
non si può tornare. Non è un caso che Oskar tenti più volte, nel corso del
romanzo, di nascondersi sotto la gonna della nonna: che sia, forse, un ritorno al grembo materno? Certo, è espressione di rifiuto verso
l’esterno, il mondo, gli adulti.
Sì, perché Oskar, a un certo punto si ribella e DECIDE di non crescere più, di
conservare la sua statura di bambino di tre anni, dopo essersi gettato a
capofitto da una botola e aver condannato i suoi genitori – innocenti, questa
volta! - a perenne senso di colpa (e tu, lettore, te ne fai una ragione, in
bilico tra realtà e allucinazione, accetti tutto ciò che questo narratore
impossibile ti confessa).
Contemporaneamente, arriva il tamburo, e sarà la sua voce.
Fingendosi ritardato, quasi muto, affiderà comunicazione, contestazione e
denuncia al ritmo forsennato delle sue bacchette sul disco di latta.
Su un tamburo di latta, Oskar batte furiosamente il disagio,
il disgusto, espelle da sé il tragico degli anni che sta vivendo.
Il tamburo è voce e scudo. È l’accetta con cui sbarazzarsi del marcio, senza compromessi.
Il tamburo è voce e scudo. È l’accetta con cui sbarazzarsi del marcio, senza compromessi.
La società appare agli occhi del nano-volontario Oskar malata
e corrotta, a partire dalla propria famiglia. Qui si sviluppa un triangolo
amoroso banale, quanto sordido, ben nascosto sotto le convenzioni e il
perbenismo. La duplice identità di Danzica si manifesta nei due padri di Oskar,
il primo, quello legittimo, Matzerath, tedesco; il secondo Jan Broski- forse
quello vero! – polacco, cugino e amante di sua madre. Entrambi vigliacchi e
deboli, profondamente disprezzati dal nostro protagonista che ci offre, per
ciascuno, un ritratto impietoso quanto indimenticabile.
Questo romanzo rompe un tabù facendo di Oskar, un eterno
bambino che non è mai stato innocente, perché grava su di lui la sporcizia del
mondo, la colpa, il disinteresse generale; dai suoi atti spontanei,
imprevedibili, causa di una perfetta punizione contro ciascuno
degli adulti che lo accudiscono, emerge ferocia e rabbia, colpa insostenibile e
vendetta. Oskar si sente causa della morte di ognuno, e Günter Grass non ci
risparmia nessun particolare…. il legame viscerale che lega Oskar al tamburo causa spesso numerosi incidenti, tutti molto poco innocenti.
Lo stile
L’espressionismo è nei dettagli disgustosi, nella
violenza della narrazione, negli aspetti (più o meno simbolici) di un diffuso
degrado. Giganteggiano gli orrori, e non ci sono censure (il lettore le
vorrebbe, in verità, ed è sempre in procinto di abbandonare…).
Non è una lettura facile e molti si arrendono dopo qualche capitolo. Rema contro il lettore la pedanteria della voce di Oskar, la dovizia di particolari, lo straniamento, l’indugiare su immagini che vorremmo non visualizzare e che invece ci vengono imposte con la ferocia del narratore perverso.
Non è una lettura facile e molti si arrendono dopo qualche capitolo. Rema contro il lettore la pedanteria della voce di Oskar, la dovizia di particolari, lo straniamento, l’indugiare su immagini che vorremmo non visualizzare e che invece ci vengono imposte con la ferocia del narratore perverso.
Però. L’ottica allucinata e stravolta di questo
adulto-bambino, privato irrimediabilmente della sua purezza, è l’unica possibile. L’unica che possa raccontare, da un punto privilegiato (che non è troppo
dentro, ma neppure fuori), il diffondersi della piaga del nazismo che alligna
laddove l’uomo è più debole e insignificante (Matzerath vi aderisce senza troppa
convinzione, perché così fan tutti), l’orrore dell’Europa in fiamme (le bombe,
le macerie, lo sterminio degli ebrei, l’oscenità dei bunker sulla spiaggia in
Normandia, lo squallore degli artisti asserviti al regime), il degrado della
Germania del dopo-guerra che piange inconsolabilmente (nella Cantina delle Cipolle!) le sue colpe, i morti, il compromesso della borghesia, ancora al
potere nonostante tutto.
Chiave di lettura: guide spirituali, nella formazione
solitaria di Oskar, sono due auctoritates
apparentemente lontane e non comunicanti: Goethe e Rasputin. Frutto di letture febbrili e di un'interpretazione che non può fare a meno della mescolanza, l'educazione letteraria di Oskar ci spinge ancora una volta nell'espressionismo della dissonanza.
Goethe |
Due visioni del mondo che, nel racconto, si mescolano continuamente e arbitrariamente:
- razionale e irrazionale,
- ferocia dell’istinto e lucidità della ragione,
- arte sana, contro arte malata,
- armonia e dissonanza
- analisi e sintesi.
La seconda parte del romanzo si svolge a Düsseldorf e vede
un Oskar ormai cresciuto, dopo la guerra, ma solo di pochi centimetri, e dopo
una lunga febbre. Musicista di un’orchestrina jazz.
Che significa? Significa che la Germania della SPD non è più
un nano ma neppure un gigante. La statura della cricca al potere e della
società tutta è di poco più elevata rispetto a quella che l’ha condotta al
disastro. Nella galleria di personaggi che incrociano Oskar nella sua follia,
difficile capire chi sia il matto. In una società del genere non ci sono sani,
il secolo breve non è sano, e Oskar non
vuole tornarvi, desidererebbe, ma non può, restare nel recinto protetto del
manicomio. Preferibile di gran lunga, alla Germania del dopoguerra.
Essa contiene in sé ancora quei demoni che l’hanno portata
alla distruzione: è la Cuoca Nera, oscura protagonista di una filastrocca per
bambini, che terrorizza Oskar e su cui si chiude il romanzo:
“Nera
sempre la Cuoca dietro m’era./Davanti ora mi viene incontro – nera/ Parola e
manto ha rivoltato – nera. Coi neri soldi si paga- nera. E i bimbi, se cantano non cantan più:/ C’è la Cuoca Nera qui? – Sì, sì, sì”
- Explicit
folgorante, che mi lascia senza parole e senza scampo.
A latere
Mi dico che deve essere stato difficile scrivere questo
romanzo per Günter Grass, nato nella Città Libera di Danzica nel 1927, da padre
tedesco e da madre di origini polacche, volontario nelle SS, combattente,
ferito in guerra e prigioniero dell’esercito statunitense e poi, a guerra
finita, membro, come Oskar Matzerath, di una jazz band. Difficile e necessario,
prendere le distanze dalla Storia (e dalla propria storia!) con un linguaggio
violento e allucinato, guardando al passato dal basso – e di sbieco.
Da dietro
la tribuna (come fa Oskar con le fanfare
della banda nazista) e non davanti. Di qui - dall’altro lato - la visuale è
diversa, consente di vedere gli strappi, le macchie, tutti gli errori. Di qui
può partire la critica, destrutturante, rovinosa, definitiva, più forte del
senso di colpa, di un pianto tardivo, da Cantina delle Cipolle. E si possono
prendere le distanze, da ciò che per debolezza o fatalità, si è accettato o
creduto di condividere.
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