La diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino è un romanzo che
ho corteggiato a lungo prima di leggere per intero. Da un lato, l’incipit
strepitoso prometteva una prosa lirica, aulica e sontuosa che di sicuro mi
avrebbe incantata, dall’altro il tema, che trovavo cupo e demotivante, fungeva
da deterrente. Un deterrente subdolo, per giunta, perché non osavo confessare a
me stessa di temere un libro che avesse al centro il tema della
malattia e della morte.
Poi è arrivato il tempo, il kairòs direbbero i Greci,
l’occasione giusta, l’ho captata e ho dato inizio alla lettura riuscendovi a
spremere quanto di bello e di necessario
vi fosse; mi sono affidata a braccia spalancate e senza difese alla poesia
decadente e mediterranea di una Sicilia dallo spirito più che mai barocco.
Il romanzo è relativamente breve, 212 pagine nell’edizione
Sellerio, ma l'ho percorso con lentezza, a piccole dosi - e meditate: sottolineando
molto, ricopiando alcuni passi, assaporando l’opulenza del periodare abbondante, soffermandomi sulle
parole che mi colpivano, perché toccavano corde più o meno sopite del mio substrato
emotivo o anche solo il senso del bello. Fin da adolescente, mi è sempre piaciuto contemplare i vocaboli nuovi, annotati su un apposito taccuino,
sopratutto se al mio orecchio suonavano dolci e misteriosi - e questo quasi sempre accade se sono pieni di
suoni liquidi e nasali.
Oggi colloco questo romanzo fra quelli che amo di più. Soprattutto
per la lingua, un italiano che usa la retorica con maestria, e si fa poetico e ricercato.
Iniziamo dall’incipit, come sempre.
Incipit
“O quando tutte le notti – per pigrizia, per avarizia – ritornavo a
sognare lo stesso sogno: una strada color cenere, piatta, che scorre con
andamento di fiume fra due muri più alti della statura di un uomo; poi si rompe
strapiomba nel vuoto. Qui sporgendomi da una balconata di tufo, non trapela
rumore o barlume, ma mi sorprende un ribrezzo di pozzo, e con esso l’estasi che
solo un irrisorio pedaggio rimanga a separarmi…da che? Non mi stancavo di
domandarmelo, senza però che bastasse l’impazienza a svegliarmi; bensì in uno
stato di sdoppiata vitalità, sempre più rattratto entro le materne mucose delle
lenzuola, e non per questo meno slegato ed elastico, cominciavo a calarmi di
grotta in grotta, avendo per appiglio nient’altro che viluppi di malerba e
schegge, fino al fondo dell’imbuto, dove, fra macerie di latomia, confusamente
crescevano alberi (degli alberi non riuscivo a sognare che i nomi, ho imparato
solo più tardi a incorporare nei nomi le forme)”
L’Infeltrita
Questo romanzo è una partitura. Un melodramma superbo.
Scorre con eleganza barocca. E del barocco porta con sé i temi, non solo lo
stile. Aleggia su tutto un’ironia amara, leggera, che, in certi passaggi,
gonfia il pathos rendendolo volutamente eccessivo quasi ridicolo, mentre in altri ne stempera
l’amarezza di fondo.
Siamo nell’estate del ’46, la guerra è finita da poco, anche
a Palermo, ma l’aria tutt’intorno sembra spenta, grave, dolorosa. Solo il
paesaggio mediterraneo della Conca d'Oro è un’esplosione di sole e colori, troppo gridati,
squillanti. Il contrasto ferisce.
A pochi chilometri dalla città sorge la Rocca , un sanatorio, in cui un gruppo di malati di tubercolosi, con malinconica loquacità, aspetta la morte (o una remota e improbabile guarigione.) Genìa eterogenea e segregata dal
mondo esterno, i malati vivono in un limbo, in un tempo rallentato e ripetitivo. Tra i degenti, rinchiusi, quasi prigionieri, c’è l’io narrante. L'alternanza fra spazio chiuso e spazio aperto, fra dentro e fuori dalla Rocca è più che una semplice contrapposizione di spazi: è la contrapposizione fra due mondi. Quello della salute e quello della malattia, quello della rinascita e quello della decadenza.
I pazienti sono tanti, la carrellata che li descrive mostra
attitudini e tic diversi, tutti hanno un proprio mondo e un proprio modo di rapportarsi
all’imminenza (in realtà indecifrabile nei tempi e nelle modalità) della morte. Spicca
tra questi Luigi il Pensieroso, che interroga come un aruspice la sua
sputacchiera; il bambino Adelmo che fino all’ultimo spera nel potere prodigiosi
del chinino; il Colonnello che conserva un forte senso della gerarchia in barba a qualunque "livella", padre Vittorio, il cappellano militare col suo taccuino riempito
di pensieri, domande, dubbi, atti d’accusa a Dio “Com’è difficile, Dio” “La
morte naturale non esiste: ogni morte è un assassinio. E se non si urla, vuol
dire che si acconsente” “Io diffiderei col dito nella sua piaga”. Una raccolta di aforismi molto duri che di per sé vale l'intera lettura.
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la Conca D'Oro |
Nell' antro malinconico, più che spaventoso, della Rocca d’improvviso Thanatos incontra Eros, e la Rocca , luogo di castità forzata, viene profanata. Ecco entrare in scena Marta, la donna di cui si innamora il protagonista, una ballerina.
Entrambi sono ricoverati nel sanatorio, dove un rigoroso sistema di separazione
tra donne e uomini rende la passione doppiamente proibita e ancora più intrigante.
Marta è una donna perduta, consumata dalla malattia; ricorda le donne del
melodramma, le Violette, le Mimì, divorate dalla passione e da un morbo fatale.
Fosco il suo passato, suggerito a brandelli, e chiaro solo nel finale. Dominano
il bianco e rosso nel suo ritratto. Il pallore e il sangue. Marta è una
bellezza decadente, una malombra contesa tra il protagonista e il dottore. Ma
non appartiene a loro. Né alla vita.
L’io narrante ricostruisce la sua storia, molti anni dopo, e dopo aver custodito la sua “diceria” sottotraccia, come un ricordo ossessivo che
lo accompagna nei sogni, notte dopo notte, ma che non riesce a confessare.
Il narratore onora con il suo racconto una strana forma di eroismo che affratellati
degenti della Rocca: la cortina che li ha separati dal mondo li fece grandi, e solenne fu il loro modo di
porsi davanti il destino. Una guerra silenziosa e umile: l'attesa della fine li ha resi nobili! Molti di loro furono soldati eppure la vera gloria, secondo il narratore, l'hanno trovata alla Rocca, in battaglie quotidiane molto diverse da quelle combattute al fronte. Al narratore il compito di celebrarle, di trovare le parole giuste per spiegare, a chi non l'ha vissuta, la vita strana del sanatorio. Tocca proprio a lui, che
ne è evaso, contro qualunque aspettativa, e che si ritrova a vivere come un semplice sopravvissuto, anonimo,
tagliato fuori dal tempo mitico in cui, con
solennità e apprensione, si attendeva il passaggio nell’altrove.
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Gesualdo Bufalino |
Zoom
Gesualdo Bufalino visse in prima persona, nel secondo dopoguerra, l’esperienza del
sanatorio. Scrivere questo romanzo fu un parto difficile. Moltissime e continue
furono le revisioni. Iniziato nel 1950, il romanzo fu ripreso venti anni dopo,
nel 1971 e pubblicato solo nel 1981. Ottenne un enorme successo, vinse anche il
Premio Campiello.
Penso all’enorme lavoro di labor limae che sta dietro a questa opera. Alle revisioni
necessarie a intessere un ordito così leggero e così complesso. Alla ricerca
lessicale. Alla difficoltà di portare la propria esperienza di vita, magari
grezza, bruta, alla levità della letteratura. Penso alla distanza che
intercorre fra questo romanzo e il linguaggio di molta prosa giovanile,
spiccia, sciatta. Ritrovo solo in parte le ragioni della mia predilezione per
questo testo. Tali ragioni non sono da ricercarsi solo nelle parole e nello stile.
Leggere questo romanzo è stata
un’esperienza necessaria: è servito a rielaborare e a sublimare esperienze
di vita che si cerca di rimuovere, di "nascondere sotto la lingua”.
Lo consiglio.
Intercettate, però, il momento più giusto. Godetelo, con calma. Come una musica che suscita malinconia e riflessioni.
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