Scrive Margherita Oggero [1]: “I
racconti contenuti in Nemico, amico,
amante…sono tutti bellissimi e Quello
che si ricorda è, a mio parere, il più bello dei bellissimi”.
Non so togliermi dalla testa questo giudizio e, infatti,
quando mi immergo in una nuova raccolta di Alice Munro, immediatamente inizio a cercare
tra i racconti il più bello dei bellissimi. E tra le raccolte, la più bella tra
le bellissime. Sì, perché è una posta che si alza sempre di più, un tendere
verso l’alto, sulle corde di una perfezione che dà le vertigini. Avete presente
una nota acuta e pulita? Tagliente e precisa, senza sbavature, in equilibrio
estremo tra le armoniche? Leggere la Munro per me è così, e ci resto stordita
Alice Munro, Nemico, amico, amante ET Einaudi |
Explicit di Ortiche, da Nemico amico amante
“Quelle piante dai grandi fiori rosa- violacei non sono ortiche. Ho scoperto che si chiamano eupatorium purpureum. Le ortiche nelle quali dovevamo essere finiti sono una specie assai più ordinaria, dai fiori viola più pallido, con steli dotati per tutta la lunghezza di una crescita fitta di spine urticanti. Dovevano esserci anche quelle, inosservate, in mezzo al rigoglio del prato incolto”
Alice Munro ci offre spesso ortiche non viste. Il lettore deve esserci preparato.
L'infeltrita: sul sentimento laterale
Mi sono domandata a lungo che cosa renda questi racconti peculiari. La sensibilità femminile, un po' algida di una scrittrice con un forte senso della misura? Non credo sia solo una questione di "genere", come ogni tanto si suggerisce, né solo di pulizia, precisione, eleganza, armonia e quant'altro giustamente si attribuisce al linguaggio di Alice Munro.
Io trovo la chiave di volta un po' di sbieco, a lato.
Alice Munro sa rendere la deviazione improvvisa dei
pensieri, gli errori di valutazione, i binari interrotti di un’intenzione mal espressa,
i non detti che si fanno gesti- manie-forme, l’isteria che si nasconde e si contiene
nel prato inglese della buona educazione, l’ingranaggio che cigola, la
stonatura appena accennata, il ricordo manipolato, le rimozioni.
Ogni racconto parte da un sentimento laterale, mai
troppo esplicito o troppo a fuoco, e ci lavora instancabilmente, braccandolo da
ogni parte, inseguendolo nei camuffamenti, nella quotidianità minuziosa, nei
rapporti familiari, convenzionali e complessi, grevi d’invidie e lacerazioni, che
nascondono crudeltà e pochezza, una più o meno precoce perdita di innocenza.
È un
sentimento che non vedremo mai al centro dell’obiettivo, ma sarà parzialmente
nascosto dall’urgenza del contesto che tenta di distrarre l’attenzione dei
personaggi e di chi li legge. E poi, clak! Nel racconto scatta
qualcosa. Non intendo folgorazioni o epifanie che si presentano con fuochi d’artificio
o punti esclamativi, come ho fatto io. È uno scatto che si rileva appena,
sottotraccia, che per un attimo scopre le carte, e ci permette di sclerotizzare
il personaggio, il suo destino, ciò che gli è mancato o ciò che ha raggiunto. Quasi sempre sono i dettagli che fanno la differenza, che danno al racconto profondità quando non te lo aspetti e, con pochi tocchi, permettono al lettore di penetrare, in un sol punto, l’universo intero del personaggio nei suoi voli e nei suoi vuoti, nella futilità e nello strazio - e di farlo proprio.
Poi il flusso riprende e il personaggio ne è di nuovo travolto-
arredi, vesti animali, fiumi. Eccolo, il senso di precarietà, che aleggia sulle
parole, sui personaggi, sulle storie senza mai incarnarsi stabilmente
in simboli, metafore, immagini certe e definitive.
È una sensazione pervasiva
che sentiamo nel fluire del racconto. La precarietà è nel tempo che cambia i
suoi scenari con rivoluzioni continue, con piccoli - irreversibili- terremoti.
Titoli e finali hanno in sé qualcosa di questa "lateralità". Sono il dettaglio che fa la rivoluzione, ma che può anche passare inosservato.
Zoom:
Cosa mi resta di Nemico
amico amante? Un passo, su tutti, passaggio sbilenco d’anima, che è ormai
parte del mio immaginario poetico. E poi il racconto “Quello
che si ricorda”, il più bello dei bellissimi, che non voglio commentare,
solo rileggere e consigliare - con forza.
“Mentre nella sua testa passavano certi
pensieri, Jinny aveva fatto la cosa più semplice che poteva succedere in un
campo di mais: si era persa.”
Perdersi in un campo di mais. C’è qualcosa di inquietante e di ipnotico
nella solarità di un campo di granoturco. Il giallo grasso delle pannocchie o
la ripetizione ottusa dei filari moltiplicati sull’ampia distesa hanno in sé il senso dello smarrimento, una vertigine spaventosa e fascinosa insieme. La donna di
cui si parla ne Il ponte galleggiante è confusa, ma inizialmente non vuole ammetterlo, resta caparbiamente aggrappata
alla solidità, alla forza, alla sua volontà ferrea. Mentre i pezzi della sua
vita si scollano e assumono coordinate nuove, con praticità ed efficienza la donna cerca
ancora di guidare il corso della propria esistenza - da protagonista. Poi molla. Si perde. In un
campo di mais. “Le nuvole avevano di
nuovo coperto il sole, perciò non sapeva dire da che parte fosse l’ovest”. Primi
tentativi di orientamento, poi la resa. “Si
fermò e riuscì a udire soltanto il fruscio del granoturco, e il rumore lontano
del traffico”.
Quando Jinny allenta la presa e si abbandona alla totale mancanza
di senso, tutto cambia. E la vita le si offre ancora nei suoi ultimi palpiti, come
“una specie di leggerezza indulgente e
una voglia, quasi, di ridere”. È una
tregua dal dolore e dal senso di vuoto che ha il valore di un momento. In quel
momento, la poesia. E la leggerezza che custodisce echi e risonanze non soltanto letterarie.
Quello che provava era una specie di leggerezza indulgente, quasi una voglia di ridere. Un fremito di affettuosa ilarità, che ebbe la meglio su tutto il dolore e il senso di vuoto, per il momento. |
L'ho letto e mi è piaciuto molto. Leggendo avevo la sensazione di guardare quelle come se ci fossi dentro.
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