Continuo a condurvi sulla strada dei libri che hanno lasciato il segno nella mia storia di lettrice. In questo modo, mi muovo nella geografia letteraria che meglio conosco, in cui mi sento a casa e dove, almeno per il momento, non ho bisogno di fare la cattiva o la capricciosa o, peggio, la maestrina miope che bacchetta, ruolo che, per diverse ragioni, mi starebbe bene.
Norwegian Wood di Murakami Haruki (ed. Einaudi, traduzione di Giorgio Amitrano) è il primo libro che mi viene in mente di consigliare quando qualcuno mi chiede un suggerimento. Con la recensione infeltrita che segue, cercherò di spiegarne i motivi. Intanto, mi impongo severamente di tenere a freno le mani perché la tentazione di citare tutti i passi che amo potrebbe vincere il buon senso e rovinare agli altri il piacere della lettura e della sorpresa.
Incipit
"Avevo trentasette anni, ed ero seduto a bordo di un Boeing 747. Il gigantesco velivolo aveva cominciato la discesa attraverso densi strati di nubi piovose, e dopo poco sarebbe atterrato all'aeroporto di Amburgo. La fredda pioggia di novembre tingeva di scuro la terra trasformando tutta la scena, con i meccanici negli impermeabili, le bandiere issate sugli anonimi edifici dell'aeroporto e l'insegna pubblicitaria della Bmw, in un tetro paesaggio di scuola fiamminga. E' proprio vero: sono di nuovo in Germania, pensai."
L'Infeltrita:
Norwegian Wood è una canzone dei Beatles che Watanabe Tōru
ascolta mentre il Boeing 747 atterra all’aeroporto di Amburgo. La musichetta di
sottofondo genera in lui un ricordo improvviso, che lo stordisce, fino alle vertigini.
In una piovosa giornata di Novembre si trova a rievocare i
vent’anni e Naoko, umbratile ragazza i cui lineamenti si confondono nella
memoria e le cui parole tornano a tratti, ingarbugliate e vaghe, come quando
era viva. Il racconto sarà perciò un lungo flashback, in cui prenderanno corpo
gli anni della giovinezza, il collegio universitario a Tokyo e le lunghe
passeggiate senza meta in una metropoli che si dilata fino a perdere i confini.
Atmosfere autunnali e malinconiche, raccontate con grazia. Verde e grigio in
dissolvenza.
Il tema della morte si incastra senza tragico e senza pathos
allo scorrere delle vicende e dei pensieri, come un accordo in minore di una
sonata delicata.
Il passaggio dall’adolescenza all’età adulta è scandito da
due amori, dalla scelta tra Naoko, che vive la sua fragile esistenza in un
istituto psichiatrico perduto tra le montagne, e Midori (un nome che significa
verde e quindi primavera-giovinezza-speranza), spumeggiante compagna
d’università che grida con ogni gesto, con la sua sessualità scanzonata e
procace, salute e vita. E la sua vita scorre sulla superficie delle cose con
quella leggerezza che salva dalle brutture, dal male, dalla sofferenza
inevitabile in cui la ragazza stessa si imbatte e contro cui combatte a colpi
di minigonna procace e di curiosità verso il mondo.
Watanabe Tōru fluttua nella sua solitudine senza lasciarsi mai sopraffare
dalla disperazione, restando in equilibrio perfetto e sfiorando nel suo
percorso i drammi di molti altri personaggi con le loro storie accennate e
rimaste sullo sfondo.
È un romanzo molto diverso da quelli di Murakami in cui si scivola fra mondi paralleli e misteriose inquietanti creature, qui manca
la dimensione surreale e onirica, non l’originalità delle vicende e delle
situazioni, non il gusto per la musica che fa scattare, improvvisa, corde
sopite dell’animo, provocando rivoluzioni emotive e crolli.
Io lo consiglio a chi ama leggere lentamente, assaporando le
parole e cogliendo le sfumature dei caratteri.
Di questo libro mi è piaciuta l’eleganza del protagonista,
un ventenne alla fine degli anni Sessanta, che affronta i nodi esistenziali più
duri senza conformismi e senza la comoda
consolazione delle trasgressioni, deriva consueta (e ormai banale) di molta
narrativa di formazione. Mi piace la sua solitudine matura, operosa, che si
specchia nella grandezza di altri personaggi giganteschi, come il giovane Holden, il
grande Gatsby, da lui tanto amati e frequentati nelle assidue letture e
riletture, segno forse di un’inquietudine tenuta a bada, sublimata dalla
letteratura.
Zoom
Tra le pagine che amo di più di questo libro, ci sono quelle che
raccontano di Sturmtruppen, compagno di stanza di Tōru, di cui non si conosce
neppure il vero nome, un’altra solitudine inviolabile e misteriosa.
Balbuziente, maniacale nella pulizia, metodico parossisticamente,
tutto involuto nella sua passione per le “m...mappe”. Ha il dono di far ridere
chiunque, pur non conoscendolo, ne ascolti l’elenco infinito delle manie, e
Tōru ama raccontare di lui per portare po’ di leggerezza alle svariate
sacche di infelicità che incontra sulla sua strada.
Sturmtruppen sparisce senza un perché, lasciando in eredità
al protagonista (e al lettore) la reticenza del rettore che dice solo “Si è
ritirato”. Non sappiamo che cosa gli accada, né perché sia apparso in questa
storia, né perché ne sia uscito. È come se Murakami non avesse voluto appesantire
di tragico l’elegia di questo romanzo, è come se ci lasciasse intravedere – lo sfioriamo
appena- un dramma umano senza forma, poi lo perdiamo e ce ne dimentichiamo.
Resta un istante solo, per domandarsi :“Che ne sarà stato di questo personaggio?”
, poi si torna al fiume lento della narrazione ufficiale e non si cercano più
quei rigagnoli secondari che l’autore non ha voluto seguire.
Però. Nell’istante in
cui il non-detto si è affacciato nella nostra sensibilità, si è
spalancato di fronte a noi l’abisso dell’immaginazione, si sono messi in moto i
pensieri, la fantasia ha provato a plasmare ipotesi e storie tutte sue e, poco
prima di smarrirsi in questo sogno, è ritornata in sé e a ripreso la lettura,
sul suo binario ufficiale.
Strumtruppen mi piace perché entra ed esce dal
romanzo senza fare rumore e senza avere un senso, è un accidente e mi commuove.
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