
Sapevo già, per via dell’immancabile clamore mediatico che
ruota attorno a tali premiazioni e per gli articoli che avevo letto, che si
trattava di un’autobiografia ma anche di un bilancio sullo stato di salute
della sinistra italiana negli ultimi anni. Le premesse mi indisponevano.
Le autobiografie mi annoiano, per quel narcisismo che deborda
da ogni riga, ma ancor più perché (è un mio limite) nella letteratura cerco
sempre un varco verso l’altrove.
La letteratura che non raffina il reale per meglio
interpretarlo mi sta stretta, perciò ho un atteggiamento piuttosto tiepido
verso le cronache, le biografie, la storia raccontata in bello stile. Per dirla
con Antonio Moresco[1], che ho avuto modo di
ascoltare nel corso di una presentazione nella mia città: “ Noi non siamo la
misura di tutte le cose dentro un orizzonte storico circoscritto”, nella vita
dell’uomo c’è una continuità e una radicalità profonda che non si possono
costringere in una catena di causa-effetto; nel reale, piuttosto, c’è tanta
materia oscura e la letteratura può intercettarla solo a patto di non assumere
categorie esclusivamente storiche.
Facciamola breve: quando leggo, amo la finzione.
Poi però mi sono incuriosita. Dal libro di Piccolo numerose
esche spuntavano ad allettarmi. Come pure mi allettavano le recensioni
positive. E ancor più la sua faccia simpatica. E il titolo, la scritta rossa, che ammicca a un celebre articolo dell'Unità sui funerali di Enrico Berlinguer.
L’esca più subdola, per esempio, giocava la carta della
nostalgia. Sapevo che Piccolo aveva iniziato a narrare il suo ingresso nella
dimensione pubblica a partire dall’epidemia di colera e dalla diffidenza verso
le cozze, passando attraverso i mondiali del 1974, approdando al terremoto in
Irpinia del 1980 e affondando negli eventi tragici della nostra storia, come il
rapimento Moro o i funerali di Berlinguer: vicende che, sebbene non vissute in
prima persona, fanno parte dell’immaginario collettivo delle nostre famiglie e
che, in un certo qual modo, appartengono anche a me. Per esempio, alcune delle
pagine scritte da Francesco Piccolo avrebbero potuto ben esser scritte dai miei
cugini più grandi, suoi coetanei, che tante volte li hanno rievocati con lo
stesso trasporto.
Un po’ tutti abbiamo provato quella strana commistione fra pubblico
e privato quando gli avvenimenti della storia, rimbalzati attraverso la
televisione e i giornali, sono ricaduti nelle nostre vite e nelle nostre
esistenze quotidiane (per quanto minime e insignificanti). In nome di ciò, mi
sono decisa a leggere l’autobiografia di Piccolo. Per ritrovare quanto di mio
ci fosse negli ultimi cinquant’anni di storia repubblicana.
L’incipit
“Sono nato in un
giorno di inizio estate del 1973,
a nove anni.
Fino a quel momento
la mia vita , e tutti i fatti che accadevano nel mondo, erano due entità
separate, che non potevano incontrarsi in nessun modo. Me ne stavo nella mia
casa, nel mio cortile, nella mia città; con i miei genitori, i miei fratelli, i
compagni di scuola, i parenti e gli amici – e in un altro pianeta accadevano i
fatti che guardavo in televisione. Ogni tanto i grandi ne parlavano, del mondo
e dell’Italia in particolare; quindi c’era interesse verso quello che accadeva
fuori dalla nostra vita. Ma noi tutti in ogni caso, non c’entravamo niente. E
io, ancora meno”
L’Infeltrita
Francesco Piccolo dice di non essere nostalgico del tempo
passato e conclude dichiarando il suo bisogno di vivere il presente, solo quello. Dichiara
inoltre di non voler fuggire in un luogo migliore, sia esso un passato
idealizzato e lontano, oppure un altro paese, con una classe dirigente più
candida e una popolazione diversa da noi italiani.
La nostalgia, però, è del lettore che si trova immerso nei
grandi eventi della cronaca, ampi quadri che facilmente recupera dalla propria
memoria e in cui si sente a casa. Eventi dilatati dai media, dalla percezione
del singolo, dagli occhi, prima di un bambino, poi di un adolescente che si
ritrova a fare i conti con il resto del mondo.
Nel racconto, la dimensione privata si mescola alla
dimensione pubblica e in questo trova la sua principale grazia. Il filtro
soggettivo ammorbidisce la cronaca, la fa umana, palpitante e perciò meno
lineare, meno facile. Pubblico e privato sono qui due categorie problematiche,
discusse, intrecciate, che si vorrebbe tenere distinte, ma che sempre restano
confuse.
L’autobiografia procede per blocchi, compiuti e
autosufficienti. Le diverse parti, tuttavia, sono tenute insieme da una
ricorsività che si esprime in richiami, considerazioni, rettifiche e
valutazioni che l’autore non cessa di rivolgere al proprio passato, come se i
conti con esso non fossero del tutto saldati e il giudizio non fosse mai
definitivo. Del resto, non si guarda mai
al passato sempre allo stesso modo, ma in maniera diversa a seconda di chi
siamo diventati, del presente che viviamo. È la lezione che ricavo da questo
libro.
Interessante è anche valutare i due macro-blocchi e i loro
titoli: la prima parte “La vita pura: io e Berlinguer”, la seconda parte “La
vita impura: io e Berlusconi”.
Da un lato, l’adolescenza scandita dalla scelta emotiva, più
che ponderata, di essere comunista (la simpatia per la Germania Est ai mondiali di
calcio del 1974 che è simpatia per i deboli, destinati alla sconfitta e
tuttavia capaci, per una sola volta, di una vittoria eroica, proprio perché contraria
ad ogni pronostico) e la fatica di esserlo del tutto, con coerenza e
intransigenza; dall’altro, la vita adulta segnata da una partecipazione alla politica
seguendo con diligenza e senza più deragliamenti i passi percorsi dalla
sinistra italiana.
Ovviamente, sembrerebbe che il giudizio sia già espresso a
chiare lettere: c’è un’epoca felice, buona, incontaminata (Berlinguer) e una
perduta, grigia, colpevole (Berlusconi, e prima ancora Craxi). Ci sono i buoni da
una parte e i cattivi dall’altra, i puri e gli impuri, la minoranza che tifa
per il bene (perde e sublima la delusione della sconfitta nella consapevolezza
di essere dalla parte del giusto) e la maggioranza che sceglie il male (e vince!)
Questo mi aspettavo, questo volevo
sentirmi dire.
In realtà, Francesco
Piccolo chiude le sue memorie con delle considerazioni che ci portano da
tutt’altra parte, spiazzandoci.
L’errore più grosso che la sinistra ha compiuto negli ultimi
anni, è stato quello di rifiutare in blocco il presente con le sue innegabili
brutture, mantenere le distanze dalla società, dalla politica, dalla storia,
per rinchiudersi in un Olimpo aureo da cui criticare, disprezzare gli altri (i
cattivi, gli ignoranti, i corrotti) con l’arma dell’ironia, del sarcasmo,
dell’indignazione a volte virulenta, sempre improduttiva.
Dopo la morte di Berlinguer, naufragato per sempre il compromesso
storico, e ancor più dopo che Bertinotti nel 1998, in nome della
“purezza”, ha scelto di far cadere il governo Prodi, la sinistra ha
deliberatamente scelto di votarsi alla sconfitta pur di non lasciarsi
contaminare dal presente; si è fatta reazionaria, chiamandosi fuori dalla
politica, fuori dai giochi. E ha offerto il Paese alla parte che l’ha mandato
in rovina. Non si può non condividere un’analisi, che resta amara nella
sostanza.
Piccolo, nel denunciare i propri difetti e i propri errori
di uomo, condanna un’intera cerchia politica, miope e incapace di mettersi in
discussione. Egli prende le distanze dal fanatismo, dalla mancanza di
compromesso che sfocia nella inanità, dalla presunzione di essere i migliori. E
finisce per auto-assolversi, al contrario, proprio per quelle volte in cui ha
saputo mettere da parte l’atteggiamento moralista, la durezza, l’intransigenza
per abbracciare una superficialità intesa come ingrediente fondamentale per vivere bene, per vivere il proprio tempo senza sensi di colpa, per essere parte
di un tutto…. per essere come tutti, appunto. Non migliore, non superiore.
Francesco Piccolo ha una vena affabulatoria tendente alla
logorrea, quando racconta gli aneddoti non ha fretta, si sofferma sugli
antefatti, indugia sui particolari, conduce il lettore per molte stanze, lungo
il filo di un ragionamento che si dispiega con calma senza lascare presagire
quando e dove andrà a finire. Ma alla fine convince. La sua auto-indulgenza
strappa un perdono (difficile) anche nel lettore, che assolve la parte peggiore
di Piccolo riconoscendo in essa i propri difetti e le proprie mancanze. Si può dire che "Il desiderio di essere come tutti" è un romanzo di formazione che ha molto del Bildungsroman classico, alla Wilhem
Meister. Francesco Piccolo nel finale appare infatti perfettamente conformato
all’ideale borghese dell’equilibrio, della misura, del buon senso. Dopo un
cammino tortuoso e doloroso, che passa per l’esperienza del rifiuto, per le
lacrime di fronte all’umiliazione di Berlinguer, per la meschinità morale del reportage contro l’italietta in
settimana bianca a Ovindoli e per la riprovazione di Bertinotti che fa cadere
il governo, Francesco Piccolo mette da parte sofferenza e delusione e sceglie
di abbracciare il presente, così com’è. Supera inquietudine e inanità e si
dichiara pronto a vivere il suo tempo.
E io? Mi riconosco molto in questa biografia, e soffro un
po’.
Zoom
Trovo esilaranti le pagine sul colera del 1973. Perché
l’autore ha dato loro sfumatura epica e tragica, e perciò sanno essere
estremamente comiche. Perché della perenne diffidenza verso le cozze, maturata
da Francesco Piccolo in virtù di un indimenticabile spavento, ne sa qualcosa la
mia famiglia che non ha servito molluschi (né cotti né crudi) per i successivi
trent’anni. E non è un’iperbole. Anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo
conosciuto da vicino quella strana sensazione che si prova quando la Storia si svolge vicino, ma
non del tutto, rendendoci QUASI protagonisti. E riconosco le vicende del
terremoto in Irpinia, una tragedia che, appena un po’ più lontano dai luoghi
colpiti, fu percepita come un tempo strano di paura sì, ma anche di emozione
condivisa (scuole chiuse, vacanze inaspettate, giorni trascorsi in campagna
tutti insieme vicini, come in una grande avventura, quasi una festa). La
superficialità di Francesco Piccolo mi fa specie, perché di fatto mi
appartiene!
[1] Antonio Moresco (Mantova, 30 ottobre 1947) è uno scrittore italiano,
autore di opere narrative, teatrali e saggistiche. Nel 2014 per
Mondadori, collana Libellule, ha pubblicato “Fiaba d’amore”, nel 2013 “La
lucina”.