venerdì 20 giugno 2014

Underworld di Don DeLillo

Per dare inizio alle mie recensioni infeltrite (e cioè senza pretese, un po' sfibrate, rimpicciolite da contingenze meccaniche più che intellettuali) presento la recensione di uno dei romanzi che più ho amato in questi anni. Uno di quelli che consiglierei ad occhi chiusi a qualunque lettore fanatico e famelico.
Underworld di Don De Lillo, un classico contemporaneo che ci dimostra come gli Anni Novanta non siano stati solo paccottiglia televisiva.


Incipit:  "Parla la tua lingua, l'americano, e c'è una luce nel suo sguardo che è una mezza speranza. 
È un giorno di scuola, naturalmente, ma lui non c'è proprio, in classe. Preferisce star qui, invece, all' ombra di questa specie di carcassa arrugginita, e non si può dargli torto - questa metropoli d' acciaio, cemento, vernice scrostata, di erba rosata ed enormi pacchetti di Chesterfield di sghimbescio sui tabelloni segnapunti, con un paio di sigarette che sbucano da ciascuno.Sono i desideri su larga scala a fare la storia. Lui è solo un ragazzo con una passione precisa, ma fa parte di una folla che si sta radunando, anonime migliaia scese da autobus e treni, gente che in strette colonne attraversa marciando il ponte girevole sul fiume, e sebbene non siano una migrazione o una rivoluzione, un vasto scossone dell' anima, si portano dietro il calore pulsante della grande città e i loro piccoli sogni e delusioni, quell'invisibile nonsoché che incombe sul giorno - uomini in cappello di feltro e marinai in franchigia, il ruzzolio distratto dei loro pensieri, mentre vanno alla partita"



Pieter Bruegel il Vecchio, Il Trionfo della Morte


L' Infeltrita:
 Un viaggio nell’America della quotidianità più disarmante, quella che non ha miti, ma vizi da esportare, priva di eroi che non siano meteore e di valori imperituri. Lo scenario è immenso, ci porta da Est a Ovest, senza un ordine preciso, dagli anni Cinquanta ai primi Novanta seguendo la parabola della guerra fredda, la sua implosione, gli strascichi, senza nessuna fedeltà alla cronologia, piuttosto in un’altalena temporale che ha i suoi punti fermi solo nell’incipit e nell’explicit. 
Non c’è un’unica voce narrante, i punti di vista si mischiano, intercettano la realtà da angolazioni diverse, la frantumano, la complicano. Si parte col racconto, quasi epico, di una partita di baseball contrappuntata dall’ ossessione che Hoover, capo dei servizi segreti americani, ha per un dipinto di Bruegel svolazzante in una riproduzione a stampa, finita allo stadio chissà come: il trionfo della morte. E’ la profezia con cui si apre il romanzo e celebra l’altra faccia della potenza americana,del suo potere economico: il suo destino inevitabile. 
La pallina che il fuoriclasse dei Giants ha lanciato sbaragliando gli avversari è tutto ciò che resta di quella lontana vittoria, un cimelio che, di mano in mano, attraversagli States perdendo, progressivamente di senso e diventando infine la traccia nostalgica di una storia minore (non scritta) che è la storia degli uomini comuni, le cui passioni intermittenti e il patriottismo riescono solo a celebrare partite e campioni di una o due stagioni.
I personaggi di questo “sottomondo” sono tanti e tutti sguazzano in una realtà fatta di oggetti da consumare (nemmeno l’arte sfugge al  ciclo di produzione, scarto, demolizione) e di scorie che ne costituiscono i resti. L’immondizia e la radioattività restano infatti un filo rosso che accompagna il lettore sino alle ultime pagine, attraverso tocchi di suggestivo espressionismo verbale che dal grottesco si innalza verso picchi insperati di lirismo (bellissimi certi crepuscoli cittadini, scorci rubati dai tetti desolati dei grattaceli dove la gente si incontra per caso e per poco a ritagliarsi una fetta di umanità). 
Nick e la sua storia che ricostruiamo a fatica (un’adolescenza nel Bronx, un omicidio inspiegabile, la rieducazione, la storia con una donna più grande di lui, l’impiego in una società addetta allo smaltimento di rifiuti, matrimonio e tradimenti); Clara Sarx  che dipinge vecchi aerei da guerra abbandonati nel deserto, scarti di guerre combattute e non sempre vinte, delle ferite di una generazione lanciata nel Vietnam e mai più tornata; il vecchio maestro Bronzini con la malinconia cucita addosso; suor Edith e la sua fede congelata e asettica; assassini, stupratori, ragazzi di ghetto, tossici: tutti hanno in sé quella dignità che li rende, per una pagina o per interi capitoli,degni di narrazione, di visione, di pietà. 
Gli incubi della tecnologia nucleare si materializzano nelle pagine finali, dove in un Kazakistan apocalittico e allucinato, si mostrano i parti orrendi degli esperimenti nucleari, ciò che resta della guerra fredda o piuttosto dell’incubo collettivo di essa: bambini disumani che giocano in un deserto radioattivo senza voce e senza occhi, arti, forma. La visione mostruosa e allucinata ci riporta di nuovo a un quadro di Bruegel, questa volta l’allusione è implicita, ma non meno chiara: giochi di bambini. Così il cerchio si chiude e quella che sembrava una narrazione per frammenti trova il suo ordine e il suo centro. La decadenza orribile di una società che celebra un progresso destinato alla comune distruzione.

Lo zoom:
delle quasi mille pagine di questo romanzo non so togliermi dalla testa il fermo immagine di un interno familiare, fine anni Cinquanta, inizi anni Sessanta. E’ sera e la voce narrante è quella della protagonista del breve frammento. La donna che ha scoperto le gelatine Jell-o, un sistema rapido per trasformare tutto in gelatina. La donna che fa gelatine Jell- o ossessivamente e le osserva nel frigorifero compiaciuta di sé, del frigorifero, dello scomparto per verdure che chiama col nome tecnico di “creespy” e dire “creespy”le piace e lo ripete spesso: “Caro, le carote sono nel creespy”. E le piace dire e fare Jell-o. Perché non tutti hanno un frigorifero e, se ce l’hanno, non tutti hanno il creespy, perciò non tutti possono fare gelatine Jell-o. La gelatina Jell-o è uno status symbol e questa donna lo sa, sa di essere in cima alla sua piccola scala sociale, in una piccola società di provincia che assapora un piccolo benessere avendo accesso ai piccoli beni di consumo, elettrodomestici, cibi preconfezionati, comodità e rapidità, che la pubblicità generosamente propone e addita. 

Queste pagine mi restano in testa perché, senza troppi giri, mettono a nudo l’alienazione e il vuoto della società dei consumi. Ed è la nostra società, che con l’aiuto della tecnologia, omogeneizza gusti, odori, colori, idee. Che produce gelatine e poi le butta via. Una società di sofficini, spinacine, bastoncini che hanno fatto il loro ingresso nella quiete degli interni familiari di provincia, in una perenne attesa dell’ora di cena e di una grassa soddisfazione da non contraddire, neppure quando produce tonnellate di spazzatura che non sappiamo più nascondere, figuriamoci smaltire. 


Pieter Bruegel il Vecchio, Giochi di bambini

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