Cielo coperto, pioggia ogni tanto, sonnolenza del dopo
pranzo: una perfetta domenica autunnale da trascorrere in casa, pigramente.
Oggi voglio recensire per voi “Mare di zucchero” sottotitolo "Due ragazzi e un sogno: la libertà", l' ultimo libro di Mario
Desiati, per edizioni Mondadori, collana “contemporanea”. La scorsa settimana
vi avevo raccontato, con genuino entusiasmo, dell’incontro con l’autore a cui
avevo preso parte insieme agli alunni della mia scuola (LEGGI "Un mare...di libri"). In quella
occasione ho comprato il libro e nel corso di questa settimana l’ho letto. Ad
un lettore adulto, in realtà, bastano poche ore per terminarlo. 186 pagine,
caratteri grandi, romanzo pensato per i ragazzi e per le ore di narrativa a
scuola, ammesso e non concesso che sopravvivano ancora in qualche
programmazione di lettere. Gli undici brevi capitoli (più epilogo) ben si
prestano a una lettura a puntate e alla riflessione.
Devo dire, sinceramente, che il romanzo mi ha deluso. Ho
apprezzato molto più la capacità di coinvolgimento dell’autore nel corso della
presentazione che il libro vero e proprio. Due errori ortografici sfuggiti al
correttore di bozze hanno fatto il resto[1],
lasciandomi la sensazione di una pubblicazione affrettata, di una scrittura che
poteva essere maturata in tempi più lunghi, soprattutto se si considera la
ricchezza del tema affrontato e il pubblico a cui era rivolta.
Incipit
“«Il porto è aperto.»
Prima è un bisbiglio, poi diventa uno strido, infine muta in un boato.
«Il porto è aperto!»
«Il porto è aperto, avete capito?» urla una donna.
È arrossata dallo sforzo e dal sole. Dietro di lei ci sono dei bambini,
forse i suoi figli, che hanno iniziato a correre verso il mare.
«Al porto, al porto!» strillano anche loro.
Le voci si sommano l’una all’altra.
«Al porto, al porto!» è una frase che si declina in mille toni diversi:
concitati, sorpresi, eccitati, speranzosi, baldi, disperati.
Ervin ha ancora la sabbia umida attaccata a gambe e piedi. Vorrebbe
unirsi a loro, correre pure lui, seguirli.
Invece resta fermo. Lo stupore lo pervade.
Non ha mai visto tanta gente muoversi insieme, e non avrebbe potuto
immaginarla neanche nelle sue fantasticherie più scatenate.”
L’Infeltrita
La nave Vlora approda nel porto di Durazzo il 7 Agosto del
1991. Viene da Cuba e porta con sé un carico di zucchero. Al grido “il porto è
aperto” ventimila persone si riversano sull’imbarcazione, è un’onda umana che
tutto travolge e che costringe il capitano a fare rotta sull’Italia, terra di
speranza, di benessere, di libertà. Che giunga a destinazione, senza
naufragare, con un carico così imponente è quasi un miracolo, un’impresa epica
e tragica insieme.
Sulla nave c’è Ervin, un ragazzino che, dimentico dei suoi
genitori rimasti a casa e del tutto ignaro delle conseguenze a cui lo porterà
la sua scelta, si lancia con coraggio e avventatezza in un’avventura collettiva,
gigantesca e pericolosa.
Luca ha tredici anni, una famiglia iperprotettiva, la
timidezza cronica di chi si sente a disagio nei confronti del mondo, dei
coetanei più spavaldi, degli adulti. Insieme al padre e ad altri volontari
raggiunge il porto di Bari per prestare soccorso ai profughi, qui incontra
Ervin, gli occhi gonfi dal pianto, la paura, il senso di smarrimento mentre
sfila con centinaia di profughi che le forze dell’ordine vorrebbero rinchiudere
nello Stadio della Vittoria.
Una scintilla, la coincidenza degli sguardi che si
incontrano, la decisione, la fuga.
Luca ed Ervin corrono via, non visti, per le desolate
periferie di Bari, fra cemento e capannoni, vanno incontro a una notte fiabesca
in cui sperimenteranno la paura, la solidarietà, la fame e la sete, l’amicizia
che nasce nonostante si parlino lingue diverse fra canzoni in italiano stentato
e cani randagi. Ervin fugge da tante cose: dalla sua terra ridotta in miseria
dopo anni di dittatura, dalla folla abbrutita nel corso del viaggio disumano,
dalla protezione civile. Luca fugge dalla sua obbedienza cieca e sottomessa ai
genitori che vorrebbero precocemente inquadrarlo in un perbenismo borghese e
disimpegnato (la messa ogni domenica, la cravatta obbligatoria, un campionario
molto vario di paure, il silenzio di fronte a domande scomode o troppo
complesse). Entrambi trovano il coraggio di mettere fine all’infanzia.
Il romanzo è diviso in tre blocchi. Il primo racconta il
viaggio di Ervin sulla Vlora, il secondo la vita tranquilla e limitata di Luca,
escluso dalla vitalità dei compagni e perduto in una realtà fatta di
videogiochi, di avventure fantastiche solo sognate, di disegni nascosti. Il
terzo blocco racconta l’avventura che Ervin e Luca vivranno insieme e l’amicizia
che intrecciano.
Ritengo che quest’ultimo segmento sia troppo breve, che non
approfondisca adeguatamente i sentimenti e le motivazioni che spingono Luca a
fuggire con Ervin. L’amicizia è immediata e spontanea, certo, ma l’impressione
che mi resta è che sia stata troppo facile, troppo netta, semplificata. Il
gesto di coraggio compiuto da Luca non viene sufficientemente enfatizzato.
Mario Desiati, nel corso della presentazione del libro, ha
affermato di aver scritto un romanzo per ragazzi, di fatto molto più adatto
agli adulti. Probabilmente mi lascia insoddisfatta proprio tale incertezza (si
parla agli adulti o ai ragazzi?) che lungi dall’essere un punto di forza, rende
questo romanzo piuttosto ibrido e poco omogeneo. Da un lato c’è una vicenda
complessa, un segmento di storia caratterizzato da una portata tragica e piena
di luci ed ombre, dall’altro la storia di due ragazzini immersi in un’atmosfera
che in certi momenti diventa favolosa e che non permette lo scavo nell’animo
dei personaggi, ma solo la narrazione incosciente delle loro azioni.
Della penna di Desiati amo soprattutto il lirismo con cui
descrive scorci della mia Puglia, la potenza di certe valutazioni
“sociologiche” con cui immortala comportamenti, tic, ossessioni, folklore della
nostra gente. Qui tutto questo viene appena accennato. La nostalgia verso gli
anni Novanta (altro elemento ricorrente nella narrativa dell’autore) si
percepisce appena nella ricostruzione della vita quotidiana di Luca (i
programmi televisivi dell’epoca, i videogiochi al bar, le canzoni, le abitudini
della borghesia di provincia) che probabilmente interseca i ricordi reali dell’autore.
Lo stile di “Mare di zucchero” è rapido e conciso, procede
per frasi brevi e giustapposte. Moltissimi gli a-capo. Le pause. I vuoti sulla
pagina. Il dialogo. Questo è l’aspetto che più di altri ci riconduce alla
narrativa per ragazzi. Il lessico, tuttavia, per quanto semplice non è mai
sciatto né ripetitivo né stereotipato.
Il tema, attualissimo se pensiamo alle tragedie del mare che quotidianamente i
TG ci riportano, produce in me un rincorrersi di suggestioni, che mescolano
ricordi personali, considerazioni storiche e politiche, valutazioni a
posteriori.
Molte erano dunque le aspettative, comprensibile (forse) la
delusione.
Nel corso della presentazione, Mario Desiati aveva
raccontato la crudeltà dei giorni trascorsi dai profughi nello Stadio Della
Vittoria, sotto il sole cocente di agosto e si era soffermato sulla delusione,
ancor più cocente, che essi provarono quando, persuasi con l’inganno a salire
sugli aerei, furono rimpatriati e, pensando di essere atterrati a Milano, si
ritrovarono a Durazzo.
Nel romanzo non c’è posto per queste vicende. L’avventura di
Ervin si riduce a un paio di notti (quella di viaggio sulla Vlora e quella a
Bari in compagnia di Luca).
La pietà, la ferocia, la solidarietà, l’amicizia, la
nostalgia di casa sono sentimenti profondi che, però, si accendono e si
spengono troppo velocemente, con l’intermittenza delle lucciole - e non fanno
luce a sufficienza.
Zoom
Le vicende separate di Ervin e Luca hanno delle simmetrie.
Entrambi possono contare su un vecchio zio che non è un vero zio, ma una figura
saggia, un adulto di quelli che insegnano la strada maestra, un vecchio
sognatore, capace di donare storie, racconti che vengono da tempi e luoghi
lontani, di trasmettere insegnamenti autentici che scaturiscono da vicende
d’emigrazione e fatica. Per Ervin si tratta di zio Guzman, per Luca di zio
Antuono. Personaggi stravaganti e positivi che ogni ragazzo dovrebbe incontrare
sulla sua strada.
Sia Luca che Ervin sognano una ragazza bionda, simile a un
angelo. Per Ervin è una figura intravista sulla nave, bellissima e lontana; per
Luca è Marion, un disegno che ha realizzato da solo, l’eroina di un videogioco.
La ragazza in carne e ossa si chiama Teodora e viene dal mare, come san
Teodoro. Il sogno rappresenta il bisogno di pace, di tranquillità, di fiducia
che a tredici anni, età dell’inquietudine, si manifesta senza saperlo, senza
esprimerlo a parole. In questi due elementi ritrovo la poesia che, altre volte,
mi ha fatto amare il mio quasi conterraneo Mario Desiati.
L'illustrazione è opera di Ottavia Bruno che insegna tecniche di illustrazione alla NABA di Milano e organizza laboratori di stimolazione della creatività per le scuole elementari. Bellissimo il turchese che richiama il mare e, al contempo, certe glasse di zucchero con cui si suole ultimamente decorare le torte. Una scelta di marketing efficace, perché ho avuto modo di osservare, in questi giorni, molte persone fermarsi di fronte alla vetrina di una libreria che esponeva svariate copie del romanzo.
Anche io, lo confesso, ne sono stata fortemente attratta, quasi ingolosita.
[1] A pagina 17: “Era stato
loro prigioniero durante l’occupazione, gli
aveva visti da vicino, aveva imparato qualche frase”; a pagina 87 : “ Il
pomeriggio i genitori sono preoccupati. Non gli ha mai visti così tesi”.
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