domenica 5 ottobre 2014

Mare di zucchero di Mario Desiati.

Cielo coperto, pioggia ogni tanto, sonnolenza del dopo pranzo: una perfetta domenica autunnale da trascorrere in casa, pigramente.
Oggi voglio recensire per voi “Mare di zucchero” sottotitolo "Due ragazzi e un sogno: la libertà", l' ultimo libro di Mario Desiati, per edizioni Mondadori, collana “contemporanea”. La scorsa settimana vi avevo raccontato, con genuino entusiasmo, dell’incontro con l’autore a cui avevo preso parte insieme agli alunni della mia scuola (LEGGI "Un mare...di libri"). In quella occasione ho comprato il libro e nel corso di questa settimana l’ho letto. Ad un lettore adulto, in realtà, bastano poche ore per terminarlo. 186 pagine, caratteri grandi, romanzo pensato per i ragazzi e per le ore di narrativa a scuola, ammesso e non concesso che sopravvivano ancora in qualche programmazione di lettere. Gli undici brevi capitoli (più epilogo) ben si prestano a una lettura a puntate e alla riflessione.
Devo dire, sinceramente, che il romanzo mi ha deluso. Ho apprezzato molto più la capacità di coinvolgimento dell’autore nel corso della presentazione che il libro vero e proprio. Due errori ortografici sfuggiti al correttore di bozze hanno fatto il resto[1], lasciandomi la sensazione di una pubblicazione affrettata, di una scrittura che poteva essere maturata in tempi più lunghi, soprattutto se si considera la ricchezza del tema affrontato e il pubblico a cui era rivolta.

Incipit
“«Il porto è aperto.»
Prima è un bisbiglio, poi diventa uno strido, infine muta in un boato.
«Il porto è aperto!»
«Il porto è aperto, avete capito?» urla una donna.
È arrossata dallo sforzo e dal sole. Dietro di lei ci sono dei bambini, forse i suoi figli, che hanno iniziato a correre verso il mare.
«Al porto, al porto!» strillano anche loro.
Le voci si sommano l’una all’altra.
«Al porto, al porto!» è una frase che si declina in mille toni diversi: concitati, sorpresi, eccitati, speranzosi, baldi, disperati.
Ervin ha ancora la sabbia umida attaccata a gambe e piedi. Vorrebbe unirsi a loro, correre pure lui, seguirli.
Invece resta fermo. Lo stupore lo pervade.
Non ha mai visto tanta gente muoversi insieme, e non avrebbe potuto immaginarla neanche nelle sue fantasticherie più scatenate.”
L’Infeltrita
La nave Vlora approda nel porto di Durazzo il 7 Agosto del 1991. Viene da Cuba e porta con sé un carico di zucchero. Al grido “il porto è aperto” ventimila persone si riversano sull’imbarcazione, è un’onda umana che tutto travolge e che costringe il capitano a fare rotta sull’Italia, terra di speranza, di benessere, di libertà. Che giunga a destinazione, senza naufragare, con un carico così imponente è quasi un miracolo, un’impresa epica e tragica insieme.
Sulla nave c’è Ervin, un ragazzino che, dimentico dei suoi genitori rimasti a casa e del tutto ignaro delle conseguenze a cui lo porterà la sua scelta, si lancia con coraggio e avventatezza in un’avventura collettiva, gigantesca e pericolosa.
Luca ha tredici anni, una famiglia iperprotettiva, la timidezza cronica di chi si sente a disagio nei confronti del mondo, dei coetanei più spavaldi, degli adulti. Insieme al padre e ad altri volontari raggiunge il porto di Bari per prestare soccorso ai profughi, qui incontra Ervin, gli occhi gonfi dal pianto, la paura, il senso di smarrimento mentre sfila con centinaia di profughi che le forze dell’ordine vorrebbero rinchiudere nello Stadio della Vittoria.
Una scintilla, la coincidenza degli sguardi che si incontrano, la decisione, la fuga.
Luca ed Ervin corrono via, non visti, per le desolate periferie di Bari, fra cemento e capannoni, vanno incontro a una notte fiabesca in cui sperimenteranno la paura, la solidarietà, la fame e la sete, l’amicizia che nasce nonostante si parlino lingue diverse fra canzoni in italiano stentato e cani randagi. Ervin fugge da tante cose: dalla sua terra ridotta in miseria dopo anni di dittatura, dalla folla abbrutita nel corso del viaggio disumano, dalla protezione civile. Luca fugge dalla sua obbedienza cieca e sottomessa ai genitori che vorrebbero precocemente inquadrarlo in un perbenismo borghese e disimpegnato (la messa ogni domenica, la cravatta obbligatoria, un campionario molto vario di paure, il silenzio di fronte a domande scomode o troppo complesse). Entrambi trovano il coraggio di mettere fine all’infanzia.
Il romanzo è diviso in tre blocchi. Il primo racconta il viaggio di Ervin sulla Vlora, il secondo la vita tranquilla e limitata di Luca, escluso dalla vitalità dei compagni e perduto in una realtà fatta di videogiochi, di avventure fantastiche solo sognate, di disegni nascosti. Il terzo blocco racconta l’avventura che Ervin e Luca vivranno insieme e l’amicizia che intrecciano.
Ritengo che quest’ultimo segmento sia troppo breve, che non approfondisca adeguatamente i sentimenti e le motivazioni che spingono Luca a fuggire con Ervin. L’amicizia è immediata e spontanea, certo, ma l’impressione che mi resta è che sia stata troppo facile, troppo netta, semplificata. Il gesto di coraggio compiuto da Luca non viene sufficientemente enfatizzato.
Mario Desiati, nel corso della presentazione del libro, ha affermato di aver scritto un romanzo per ragazzi, di fatto molto più adatto agli adulti. Probabilmente mi lascia insoddisfatta proprio tale incertezza (si parla agli adulti o ai ragazzi?) che lungi dall’essere un punto di forza, rende questo romanzo piuttosto ibrido e poco omogeneo. Da un lato c’è una vicenda complessa, un segmento di storia caratterizzato da una portata tragica e piena di luci ed ombre, dall’altro la storia di due ragazzini immersi in un’atmosfera che in certi momenti diventa favolosa e che non permette lo scavo nell’animo dei personaggi, ma solo la narrazione incosciente delle loro azioni.
Della penna di Desiati amo soprattutto il lirismo con cui descrive scorci della mia Puglia, la potenza di certe valutazioni “sociologiche” con cui immortala comportamenti, tic, ossessioni, folklore della nostra gente. Qui tutto questo viene appena accennato. La nostalgia verso gli anni Novanta (altro elemento ricorrente nella narrativa dell’autore) si percepisce appena nella ricostruzione della vita quotidiana di Luca (i programmi televisivi dell’epoca, i videogiochi al bar, le canzoni, le abitudini della borghesia di provincia) che probabilmente interseca i ricordi reali dell’autore.
Lo stile di “Mare di zucchero” è rapido e conciso, procede per frasi brevi e giustapposte. Moltissimi gli a-capo. Le pause. I vuoti sulla pagina. Il dialogo. Questo è l’aspetto che più di altri ci riconduce alla narrativa per ragazzi. Il lessico, tuttavia, per quanto semplice non è mai sciatto né ripetitivo né stereotipato.
Il tema, attualissimo se pensiamo  alle tragedie del mare che quotidianamente i TG ci riportano, produce in me un rincorrersi di suggestioni, che mescolano ricordi personali, considerazioni storiche e politiche, valutazioni a posteriori.
Molte erano dunque le aspettative, comprensibile (forse) la delusione.
Nel corso della presentazione, Mario Desiati aveva raccontato la crudeltà dei giorni trascorsi dai profughi nello Stadio Della Vittoria, sotto il sole cocente di agosto e si era soffermato sulla delusione, ancor più cocente, che essi provarono quando, persuasi con l’inganno a salire sugli aerei, furono rimpatriati e, pensando di essere atterrati a Milano, si ritrovarono a Durazzo.
Nel romanzo non c’è posto per queste vicende. L’avventura di Ervin si riduce a un paio di notti (quella di viaggio sulla Vlora e quella a Bari in compagnia di Luca).
La pietà, la ferocia, la solidarietà, l’amicizia, la nostalgia di casa sono sentimenti profondi che, però, si accendono e si spengono troppo velocemente, con l’intermittenza delle lucciole - e non fanno luce a sufficienza.
Zoom
Le vicende separate di Ervin e Luca hanno delle simmetrie. Entrambi possono contare su un vecchio zio che non è un vero zio, ma una figura saggia, un adulto di quelli che insegnano la strada maestra, un vecchio sognatore, capace di donare storie, racconti che vengono da tempi e luoghi lontani, di trasmettere insegnamenti autentici che scaturiscono da vicende d’emigrazione e fatica. Per Ervin si tratta di zio Guzman, per Luca di zio Antuono. Personaggi stravaganti e positivi che ogni ragazzo dovrebbe incontrare sulla sua strada.
Sia Luca che Ervin sognano una ragazza bionda, simile a un angelo. Per Ervin è una figura intravista sulla nave, bellissima e lontana; per Luca è Marion, un disegno che ha realizzato da solo, l’eroina di un videogioco. La ragazza in carne e ossa si chiama Teodora e viene dal mare, come san Teodoro. Il sogno rappresenta il bisogno di pace, di tranquillità, di fiducia che a tredici anni, età dell’inquietudine, si manifesta senza saperlo, senza esprimerlo a parole. In questi due elementi ritrovo la poesia che, altre volte, mi ha fatto amare il mio quasi conterraneo Mario Desiati.
Mi piace molto anche la copertina di questo romanzo, accessorio che normalmente non osservo e non valuto. 
L'illustrazione è opera di Ottavia Bruno che insegna tecniche di illustrazione alla NABA di Milano e organizza laboratori di stimolazione della creatività per le scuole elementari. Bellissimo il turchese che richiama il mare e, al contempo, certe glasse di zucchero con cui si suole ultimamente decorare le torte. Una scelta di marketing efficace, perché ho avuto modo di osservare, in questi giorni, molte persone fermarsi di fronte alla vetrina di una libreria che esponeva svariate copie del romanzo. 
Anche io, lo confesso, ne sono stata fortemente attratta, quasi ingolosita. 









[1] A pagina 17: “Era stato loro prigioniero durante l’occupazione, gli aveva visti da vicino, aveva imparato qualche frase”; a pagina 87 : “ Il pomeriggio i genitori sono preoccupati. Non gli ha mai visti così tesi”.

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