giovedì 9 ottobre 2014

L'incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio

Amici cari, scrivere è sempre un piacere, ma che fatica quando le urgenze del quotidiano, il lavoro e la stanchezza incalzano sottraendo tempo e forze alle mie infeltrite!
Oggi, però, ho voluto a tutti i costi ritagliarmi un piccolo spazio sul finire di questo pomeriggio autunnale straordinariamente limpido, per parlarvi della mia ultima lettura.
Dal momento che anche per quest’anno Murakami Haruki NON ha ottenuto il premio Nobel per la letteratura, benché fosse tra i più quotati nel TotoNobel, ho pensato di occuparmi di lui e del suo ultimo lavoro: “L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio”, edito da Einaudi e tradotto da Antonietta Pastore. Consideriamolo una sorta di risarcimento a me stessa e alle inutili speranze elargite: nonostante diverse delusioni, Murakami ha sempre un posto speciale nel mio cuore.
Il titolo a qualcuno è parso profetico: il romanzo è fumoso, dall’andamento ondivago, con un finale sospeso, più che aperto, e complessivamente (forse volutamente?) INCOLORE. È il giudizio che si ricava, per esempio, da questa bella recensione che ho avuto modo di leggere un po’ di tempo fa: De inanitate, autore Pino Sabatelli.
Nel romanzo, tuttavia, vi sono spunti e suggestioni che mi piacciono. Se ne volete sapere di più, eccovi la “recensione infeltrita” della giornata.

Incipit
Dal mese di luglio del suo secondo anno di università fino al gennaio seguente, Tazaki Tsukuru aveva vissuto con un solo pensiero in testa: morire. Nel frattempo aveva compiuto vent’anni, ma raggiungere la pietra miliare della maggiore età non era stato per lui un evento particolarmente significativo. Metter fine ai suoi giorni gli sembrava la cosa più naturale e coerente. Per quale motivo, però, non avesse fatto quell’ultimo passo, ancora oggi non riusciva a capirlo. E dire che in quel periodo attraversare la soglia che separa la vita dalla morte sarebbe stato più facile che bere un uovo dal guscio!
L’Infeltrita
Le mal du pays di Liszt, nella sua traduzione italiana Gli anni di pellegrinaggio” è la colonna sonora di questo romanzo. Un tema musicale, come sempre, poco noto, presentato in una esecuzione raffinata. Murakami non si smentisce. Affida alla musica l’atmosfera di fondo della narrazione: la nostalgia, una tristezza cheta ma cronica, che porta il protagonista a rimpiangere il suo paese, la per sempre perduta adolescenza che è terra di perfezione, di armonia ideale, di amicizia pura-incorruttibile-asessuata. Una terra che si deve abbandonare prima o poi, raccogliendo le proprie forze, sporcandosi, corrompendosi. 
In una parola, crescendo.
Crescere è come morire: si cambia aspetto, dimora, affetti, pensieri, prospettive. Si distrugge quello che c’era prima, ed è sempre tragico. Tazaki Tzukuru cresce dopo essere stato abbandonato dai suoi quattro amici. Espulso dal cerchio perfetto di un gruppo pieno di ideali, di colori, di personalità disposte a reprimere i propri impulsi pur di preservare un’armonia senza dissonanze.
L’esperienza del rifiuto o dell’abbandono è una tappa che tutti prima o poi si trovano a vivere e, dal punto di vista di chi la subisce, essa ha sempre la forza schiacciante di un’ingiustizia che resta inspiegabile e priva di senso. Qualcuno reagisce involvendo: attraversa più o meno metaforicamente la soglia che separa la vita dalla morte e perde le forze vitali. Altri, invece, dopo un periodo di “pellegrinaggio” per lande desolate, evolve. La maturità, spesso, è un processo che passa attraverso eventi dolorosi e improvvisi.
È quello che accade al protagonista, Tazaki Tzukuru. Il suo nome significa “costruire” e rispecchia per puro caso il suo talento: progettare stazioni. È un ingegnere, ha 36 anni. Da tempo sente di essere “incolore”, privo di personalità, una convinzione che ha maturato anche da quando, senza una spiegazione, i quattro amici del liceo lo hanno allontanato, pregandolo di non cercarli più. A vent’anni delusioni del genere fanno desiderare la morte, come ci mostra l’incipit un po’ fosco che vi ho riportato. Tazaki Tzukuru, però, non muore, cresce.
Attraversa “anni di pellegrinaggio”, vaga cercando di rimettere insieme i cocci sconnessi della sua anima, costruendo pian piano la sua identità di adulto. Il processo sarà terminato solo quando avrà ritrovato gli amici di allora, ormai cresciuti, e chiarito le ragioni dell’allontanamento imposto.
"Una realtà parallela, che poteva nascere soltanto dalla forza di un'immaginazione
 liberata in un momento particolare, in un luogo particolare."
Un romanzo ibrido. Da un lato, la vena intimistica e delicata che fu di Norwegian Wood (ma senza la stessa coerenza), dall’altro sequenze narrative in cui la dimensione reale e quella onirica si sfiorano accennando a un mistero, fino alla fine non risolto,che confonde il lettore.
Come in altri romanzi di Murakami, l’inconscio e le pulsioni irrazionali si materializzano assumendo forme concrete (gnomi malvagi, sogni che non sono mai del tutto tali, figure che sbucano dal passato, dita amputate, avatar notturni) che trovano posto accanto alla quotidianità più ordinaria. Non tutto si riesce a capire o a interpretare con coerenza, a volte si ha l’impressione che ci siano capitoli superflui oppure talmente eccentrici che sembrano non incastrarsi nella trama, ma fungere da distrattori.
Tazaki Tsukuru ha scarsa stima di sé, si percepisce insignificante, ma in realtà è l’unico capace di scegliere, di seguire le proprie aspirazioni. I quattro amici perfetti e “colorati” alla fine ripiegano su esistenze non profondamente desiderate. Al lettore, in ogni caso, sembra di muoversi tra personaggi scialbi.
Il protagonista è snervante: accetta di farsi allontanare da un gruppo senza neppure domandarne la ragione; trascorre quindici anni della sua vita con un dolore sordo e congelato nel cuore ma non lo affronta; accetta passivamente la solitudine impostagli dagli altri e solo dopo essere stato insistentemente sollecitato da Sara, un’amica a cui scopre di voler bene, decide di sollevare il coperchio dell’anima per guardarvi le verità nascoste.
Il personaggio vive i suoi 36 anni fluttuando, si pone poche domande o se le pone con scarsa convinzione; anche quando si mette in viaggio alla ricerca del proprio passato sembra che in lui le passioni siano del tutto congelate. Spesso non capisce quello che gli accade, ma non vi dà peso.
Il lettore, invece, ne ricava frustrazione. Registra insensatezza in taluni eventi (inconclusi) e si chiede perché l’autore abbia voluto inserirli per poi lasciarli sospesi.
Il finale aperto è in linea con questa vaghezza, probabilmente ricercata di proposito, ma alla fine dei conti, un po’ deludente. Insomma, non sono sazia!!!
La prosa, invece, anche nella traduzione di Antonietta Pastore (ero abituata alla penna di Giorgio Amitrano!) mi piace tanto. Limpida, quasi a compensare il torbido della narrazione, è un piacevole abbraccio, una voce che non affatica. Con i suoi mezzi toni, le sfumature delicate è l’elemento che più mi ricorda Norwegian Wood.
Non tutto è perduto, dunque, in questo romanzo “sospeso”.

Zoom
Passaggi improvvisi guizzano nella lettura ed eccomi, con la matita, a sottolineare come una matta, per fare mia una frase, una sfumatura, un punto fermo. Da lettrice, amo ritrovarmi in ciò che leggo.
Tsukuru cercava di calcolare quanto tempo la gente sprecasse ogni giorno nei tragitti. Mediamente, da un’ora a un’ora e mezza per andare e altrettanto per tornare. Più o meno. Un comune impiegato sposato, con uno o due figli, e che lavorava in centro, se voleva avere una casa di proprietà doveva rassegnarsi a vivere in un quartiere periferico raggiungibile in quel lasso di tempo come minimo. Quindi delle ventiquattro ore della giornata due o tre se ne andavano solo per spostarsi avanti e indietro dal posto di lavoro. Nei treni affollati, se era fortunato, riusciva a leggere il giornale o un tascabile. Forse era anche possibile ascoltare sull’iPod le sinfonie di Haydn, o studiare conversazione spagnola. O magari, per alcuni, chiudere gli occhi e abbandonarsi a riflessioni metafisiche. Tuttavia, in generale, era difficile considerare quelle due o tre ore al giorno un tempo utile. In un’esistenza umana, quanto tempo veniva rubato da quegli spostamenti (probabilmente) privi di significato? 
In quale misura tutto questo causava stress e fatica?
Et voilà sono proprio io, cari amici: una pendolare che legge, sonnecchia, spende sugli autobus il meglio della propria giornata e non si rassegna.
Nel brano scelto, tuttavia, non c’è solo la mia fatica quotidiana, c’è forse anche il perché Murakami abbia speso tante pagine in particolari inutili e in sequenze narrative senza sviluppo. Esse sono come le ore trascorse sui mezzi pubblici, insensate e necessarie. Parti della vita in cui il tempo si spreca, nostro malgrado, ma di cui non ci si può liberare.
Non si può raccontare la vita, ed essere credibili, senza raccontarne il tempo perso.

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