domenica 2 novembre 2014

Auto da fé di Elias Canetti. Un grande manicomio. Recensione.

Ritorno oggi, dopo un po’di assenza, ai classici del Novecento.
Mi occuperò di Auto da fé un romanzo dello scrittore bulgaro Elias Canetti, edito da Adelphi (traduzione di Luciano e Bianca Zagari), che tutti i bibliofili un po’ fanatici e molto sussiegosi, come sono io a volte, dovrebbero leggere.
Ho considerato questa lettura un monito verso me stessa, una sorta di avvertimento contro la presunzione che sotto-sotto ogni lettore culla, ritenendosi migliore di chi non legge. Non sfuggo alla categoria, lo confesso, ma cerco come posso di curare la malattia, perché produce abbagli, pregiudizi malcelati e scollamento dalla realtà. E non ci fa onore!
Il romanzo di Canetti è, vi assicuro, una cura molto drastica. E una catarsi. Un’esperienza che il lettore forte deve provare.
Qualche domenica fa, se ricordate, mi ero occupata del romanzo di Muriel Barbery, L’eleganza del riccio, definendolo “paradiso dei lettori” perché metteva al centro i libri e due bibliofile sui generis, Reneé e Paloma, che rivendicavano il diritto a vivere ben separate dagli altri uomini, paghe di una solitudine dotta e decisamente snob (Vai al post). Oggi vi propongo un altro personaggio che vive di libri, la cui ossessione è talmente forte e radicata da indurlo a sviluppare una vera e propria fobia nei confronti dell’umanità, potenziale nemica del sapere e minaccia (fisica e materiale) alla conservazione dei propri preziosissimi tomi. Un uomo la cui casa è una tetra biblioteca di quattro stanze arredate di null’altro che libri. 
Bellissimo, diranno molti di voi. Se non che….

Vi lascio alla recensione infeltrita, senza aggiungere altro.

A casa, libro tra i libri.

















Incipit
«Che fai qui, ragazzo?».
«Niente».
«E allora perché ci stai?».
«Così…».
«Sai già leggere?».
«Oh sì».
«Quanti anni hai?».
«Nove compiuti».
«Cosa ti piace di più: una tavoletta di cioccolata o un libro?».
«Un libro».”

L’Infeltrita
Nell’incipit del romanzo intravediamo l’unica relazione positiva allacciata per caso dal protagonista, l’illustre sinologo Peter Kien. La relazione è possibile in virtù del solo medium riconosciuto: il libro. Il valore attribuito al libro dal ragazzino rende quest'ultimo degno di attenzione agli occhi del professore. Potrebbe nascere un rapporto fecondo e illuminato di discepolato, ma Elias Canetti spinge il romanzo in un'altra direzione e del ragazzino, dopo le primissime pagine, perdiamo ogni traccia.
Il romanzo NON si gioca sul binomio maestro-allievo come l’incipit indurrebbe a credere, ma sulla totale incapacità alla vita dell’uomo di cultura, tutto libri e parola scritta.  
Insieme al ragazzino sparisce la speranza di rintracciare nell’universo costruito attorno a Kien un qualunque individuo portatore di valori positivi.
Un severo pessimismo si abbatte sulla narrazione assumendo le forme sgargianti e parossistiche del grottesco. L’ironia spietata sotto cui passano tutti i personaggi è crudele e assoluta. L’uomo dei libri, Kien, sembra avere in sé l’innocenza della vittima sacrificale, ma di fatto paga a caro prezzo un difetto abnorme: il disprezzo verso i suoi simili. Dall’alto della propria cultura giudica tutti inadeguati, compresi gli esponenti del mondo accademico che lo corteggiano invano. Ancora più evidente è il ribrezzo suscitato in lui dal popolo vile: nella fattispecie, la governante Therese e il violento portiere. Prestiamo attenzione: sebbene Peter Kien catturi con le sue bizze le simpatie del lettore, non è affatto innocente, è  anzi un individuo carico di boria intellettualistica e di saccenza. Accettando la tesi di questo romanzo, concludiamo che l'intellettuale meriti davvero una punizione esemplare, assoluta: l’auto da fé  che si squaderna nel corso della narrazione sotto i nostri occhi scandalizzati e impotenti.
Il lettore (forte) si trova invischiato suo malgrado nel meccanismo dell’identificazione e subito, già dopo i primi capitoli, chiede pietà per Kien e anche per se stesso.
Elias Canetti non ci risparmia niente. Espressionismo, sapore di Mitteleuropa. Schianto di una società in crisi che si rivela avida e meschina, incapace di assegnare alla cultura la speranza di una palingenesi. Anzi, la cultura stessa è malata, ripiegata su se stessa, coacervo di narcisismo e inutile perché avulsa dal presente.
Il romanzo è diviso in tre parti:
§         Una testa senza mondo;
§         Un mondo senza testa;
§         Il mondo nella testa.
La prima parte descrive la meticolosità maniacale con cui il protagonista si tiene lontano dal mondo. Murato vivo in una biblioteca, riconosce nei libri gli unici interlocutori degni di sé. La sua non-vita di individuo sessualmente neutro è una costruzione perfetta desinata  crollare sotto il logorio di tarli altrettanto implacabili e ostinati: Therese, governate scaltra, di una grettezza che ha del sublime e Pfiaf il portiere-lanzichenecco la cui volgarità conosce solo il linguaggio quello dei pugni e del denaro.
Tra il popolo e l’intellettuale il passaggio dall’incomunicabilità alla guerra aperta è immediato e irreversibile.
La seconda parte narra dell’ingresso forzato di Kien nel mondo. Lo spazio narrativo non è più la casa-biblioteca ma la città delle bettole notturne, uno spazio altrettanto asfittico, dove un’umanità multiforme e sordida si muove attorno al protagonista spinta da interessi materiali e dalla corruzione che non salva nessuno. Domina questa sezione Fischerle, nano malizioso e gobbuto, che sogna un futuro da campione degli scacchi, vestiti eleganti e un profilo senza gobba. Tutto a spese di Kien, ovviamente.
La terza parte porta sulla scena il fratello del professore, George, vanesio psichiatra, innamorato di se stesso, giunto a salvare Kien dalla rovina completa. Potrà Peter Kien riscattarsi? Tornare dai suoi amati libri? Ormai il mondo che ha tentato di tenere lontano da sé è “nella testa”, con i suoi clangori, le aporie, i bassi appetiti, la violenza.
Di fronte allo schianto dell’esperienza, quale funzione avranno i libri, il sapere, l’intellettualismo? Il finale (grandioso!) del libro ve lo rivela. Io non posso anticiparlo.
Il titolo originale, in tedesco, è Die Blendug, letteralmente l'accecamento: è la più grande paura del protagonista che, privo degli occhi, non avrebbe accesso alla sua unica ricchezza. Di fatto, l'accecamento più grande e inevitabile è quello che si produce in Kien indipendentemente dagli occhi. 

Amo di questo libro l’intelaiatura perfetta. L’occhio con cui si sezionano i personaggi, i particolari ridicoli che si impongono all’attenzione, il sarcasmo di fondo, impietoso verso tutti gli uomini, dal protagonista ai suoi persecutori. Le vanità e i desideri di ciascuno si rivelano leggeri e portatori di rovina. Si ride, spesso, della dabbenaggine dei personaggi, delle loro manie, delle situazioni assurde e tragiche in cui si chiudono. Ma è un riso amaro.
Io penso che Auto da fé abbia una funzione catartica.
Ci salva dalla presunzione schiaffeggiandoci e sbeffeggiandoci.

Zoom
In questo romanzo si ha la sensazione di muoversi in un universo di pazzi. L’autore raccontò di aver scritto il libro a Vienna, mentre soggiornava in una pensione che sorgeva di fronte a un manicomio. La ripetuta osservazione di quel luogo dove si ammassavano seimila matti fu una spina nella carne, il pungolo per la composizione di Auto da fé.
Trovo particolarmente interessante il passo che trascrivo qui sotto:
…pazzi diventano coloro che pensano sempre e soltanto a se stessi. La demenza è una punizione per l’eccessivo egoismo. Per questo nelle cliniche si raduna la peggior canaglia del Paese. Le prigioni rendono lo stesso servigio, ma la scienza ha bisogno di manicomi come materiale di osservazione” ritengo che in esso si nasconda la chiave di lettura di tutta l’opera. Kien e gli altri personaggi pagano l’eccesso di egoismo. Auto da fé si presenta come un gigantesco manicomio reboante, che il narratore esterno osserva con intento scientifico e sguardo impietoso.

In questo manicomio il lettore colloca inevitabilmente anche se stesso.


Supplizio delle fiamme nella cerimonia dell'autodafé 

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2 commenti:

  1. Non so se Canetti abbia letto il racconto di Charles Nodier Il bibliomane, ma anche in queste poche paginette lo scrittore francese, già bibliofilo, racconta un personaggio simile "Theodore passava la vita in mezzo ai libri, non si occupava che di libri, e questo aveva dato modo a qualcuno di pensare che stava componendo un libro che avrebbe reso inutili tutti gli altri libri, ma si sbagliavano evidentemente" che nella sua disperata ricerca di un vecchio volume del 1676, questa febbre lo divorerà tanto che nel suo epitaffio gli amici scriveranno
    "Qui giace nella sua legatura di legno un esemplare in folio della migliore edizione dell'uomo scritta in una lingua dell'età d'oro che il mondo non intende più, è oggi un libruccio guasto, macchiato, scompagnato, falloso nel frontespizio beccato dai vermi, molto danneggiato dalla putrefazione, non si osa attendere per lui gli onori tardivi e inutili della ristampa."

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    1. Canetti non so se lo abbia letto, ma a me viene voglia di recuperare al più presto questo racconto....

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