domenica 31 agosto 2014

Sondaggio #3 Impressioni di Settembre

Settembre, andiamo. È tempo di migrare.
Ora in terra d'Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all'Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.

da I Pastori, G.D'Annunzio

Il sondaggio del mese ha sapore di malinconia. 
Perché l'estate è al suo declino e, lentamente, la luce dei pomeriggi, che in giugno pare infinita, riporta sere più precoci e più fresche. Le vacanze sono finite quasi per tutti e anche chi ha lasciato la scuola da un pezzo non può fare a meno di sentire nell'aria un senso di chiusura e riapertura di un ciclo, un compimento che sa di doveri rinnovati, di lavoro che ricomincia, di routine che riprende. La TV, del resto, dai prossimi giorni ci propinerà il suo palinsesto più consueto, scandendo la giornata dello spettatore medio con le buone vecchie trasmissioni di sempre. Autobus e treni regionali infittiranno le loro corse e i pendolari ritroveranno quella regolarità un po' grigia che racconta storie di lavoro, di studio e di impegno. 
I più fortunati strapperanno al mare i bagni più belli, godendo di spiagge semi-deserte, di acque cristalline e di frescura. Per tutti gli altri, resteranno i paesaggi rubati al finestrino dell'autobus, alla finestra del proprio ufficio oppure al ricordo delle vacanze estive, da poco terminate.  
Settembre è come i trent'anni in una poesia di Cardarelli "un gran vento che si va calmando"

Penso che per salutare il nuovo mese e per dare commiato all'estate ci voglia una buona lettura. Una lettura che abbia sapore di inizio. Che ci accompagni dolcemente verso l'autunno fluendo a ritmo largo. Un classico
Le letture di settembre sono sempre state un po' speciali per me. Perché, in una dimensione meno vacanziera e festaiola, ho avuto la possibilità di recuperare un approccio più meditativo, una concentrazione che mi ha fatto assaporare meglio le storie e pesare le parole. Gli autori scoperti a Settembre, forse è un caso, sono sempre diventati voci indispensabili nel mio bagaglio letterario.
Il libro a settembre è una specie di traghetto che mi guida verso il nuovo anno scolastico (eh sì, sono una prof.) e gli dà un sapore tutto suo, di anno in anno, sempre diverso.

COSA VOTARE
Il sondaggio che vi propongo, perciò, non vi sembri strampalato: vorrei che sceglieste il libro di Settembre in una rosa di dieci. Potete votare un libro già letto che consigliereste ai vostri amici o uno che non avete ancora letto e che vi proponete di recuperare e di leggere in questi giorni (magari è proprio questa l'occasione che aspettavate da tempo!)
COME VOTARE
Facilissimo. A destra, sulla pagina blog, se mi collegate da PC. 
Se vi collegate da smartphone, nel caso non visualizzaste immediatamente il sondaggio a destra della pagina, recuperate la visualizzazione WEB cliccando sull'apposito bottone ai piedi del post. Si può esprimere una sola preferenza.
E POI?
Lascio un commento spiegando le ragioni del voto oppure, se nessuna delle proposte mi aggrada, indicando quale libro suggerirei a dei lettori potenziali. 
Ok, non siete obbligati, ma a me piace confrontarmi, conoscere le vostre ragioni e arricchirmi di spunti e suggerimenti. Quindi, non siate avari di parole...scrivete e scrivetemi!
ANALISI
A fine sondaggio commentiamo, analizziamo i dati e realizziamo una tempesta di Tweet-citazioni sul libro vincitore. 

Vi aspetto numerosi!!!


Book-gallery





venerdì 29 agosto 2014

Non tutti i bastardi sono di Vienna - Andrea Molesini

Vi posto oggi una vecchia recensione nata in occasione di un incontro con l'autore che ebbi la fortuna di presentare nel corso del Progetto "Spesso chi legge", organizzato dal Liceo Scientifico G. Tarantini (Gravina in Puglia, BA) per i suoi studenti. Un appuntamento che si ripete anno dopo anno, incrementando sempre più il numero di lettori, sia adulti che ragazzi. Anima del progetto è una grande Prof. collega amica intellettuale: Elvira Loiudice. Che non vedo da tanto e mi manca molto.
Il romanzo di cui voglio parlarvi è Non tutti i bastardi sono di Vienna, di Andrea Molesini, edito da Sellerio, vincitore del Premio Campiello 2011.
Poiché la presentazione dell'opera si rivolgeva a una platea di studenti e professori che avevano già letto il romanzo, nella mia recensione c'è un po' di spoiler: tranquilli, il finale non viene rivelato! I particolari raccontati servono a farvi venire l'acquolina in bocca.
In questi anni, Andrea Molesini ha pubblicato, sempre per Sellerio, altri due romanzi: La primavera del lupo e Presagio.
Di lui ricordo la statura imponente e maestosa, l'accento veneto, dolce e pacato, e....l'infinita pazienza!! Prima di avere diritto di parola, seppe ascoltare in silenzio (e stoicamente) una fila di discorsi, omaggi, saluti, introduzioni e in ultimo, la presentazione che potete leggere qui sotto, a firma della sottoscritta - non esattamente campione di sintesi, benché la definiamo "infeltrita" - ....che vergogna, parlai per più di mezz'ora! 

Non mi ha picchiato, ma forse avrebbe dovuto. 


L'Infeltrita
Nel corso della Grande Guerra, a Refrontolo.
Siamo vicini nel tempo e nello spazio alla disfatta di Caporetto. Le difese italiane sono state sfondate da pochi giorni, l’atmosfera è cupa, pesante. La notte del venerdì 9 Novembre 1917 il capitano Korpium e il suo manipolo di soldati irrompe su villa Spada, entra di prepotenza nella vita di tutti i suoi abitanti. Da questo momento nulla sarà più come prima. Assediati in casa, gli Spada dovranno vivere col nemico sotto lo stesso tetto.
La guerra irrompe nella vita quotidiana di Paolo, un diciassettenne orfano, un ragazzo curioso che si intrufola dappertutto, che ama ascoltare, vedere, conoscere e che sarà testimone e narratore di tutte le vicende. All’inizio è solo un“ceo”, poi, esperienza dopo esperienza, uomo fatto, provato.
La guerra irrompe nella vita di nonno Guglielmo, uomo dotato d’ironia, cinico a tratti, con un forte senso delle gerarchie e una passione per i proverbi e la scrittura. Guglielmo è lo scrittore che non ha il coraggio di uscire allo scoperto, lo scrittore rintanato nella torre, capace di poche pagine straordinariamente accurate, ma privo della volontà sufficiente per ultimare l’opera tutta. Ha grandi idee, ma poco coraggio.
La guerra irrompe nella vita di Donna Maria, la zia di Paolo, una donna coriacea e piena di grazia, mascolina e femminile al contempo, capace di fermezza e diplomazia.
La guerra irrompe nella vita di nonna Nancy, una donna che ha un “albero di clisteri” nel bagno e una irreverente “filosofia del clistere”, perché, a suo dire, se tutti gli uomini si purgassero con regolarità il mondo (forse) non sarebbe tanto corrotto; ha inoltre la passione per la matematica e un Terzo Fidanzato fra i piedi (per farci sorridere in mezzo a tanto orrore).
La guerra irrompe nella vita di Teresa, una cuoca brutta oltre ogni dire e che, ahinoi!, parla un dialetto stretto, ma che si fa capire nella sua devozione profonda ai signori e alle pentole, al foghér, alla sua cucina, sacra come un tempio, che i soldati occupanti profanano con le loro suole pesanti, le voci selvagge, con la violenza che sventra armadi e credenze.
La guerra irrompe nella vita di Loretta, figlia di Teresa, una ragazza cotta dall’invidia e corrotta dal livore verso i signori che hanno tutto, mentre lei non ha niente, solo avanzi e fatica.
La guerra irrompe nella vita di Renato Manca, un custode che non è un custode, ma una spia del S.I, un gigante capace di bestialità e di eroismo.
La guerra irrompe nella vita di Giulia, la folle, la bella, la coraggiosa, la bizzarra, la donna che fa conoscere al giovane Paolo i primi sussulti d’amore, che lo inizia al mistero della sessualità in boccio.
La guerra irrompe sulle case dei contadini e le svuota. Irrompe sulla chiesa del paese e ne porta via la voce (le campane, perché il metallo serve). Irrompe nella vita delle ragazze del paese, cinque, e le violenta sotto gli occhi della Vergine, in chiesa. Perché La guerra è violenza sempre, senza scampo.

Dopo i tedeschi ci saranno gli austriaci, dopo Korpium, Von Feilitzch. L’invasore cambia volto e insegne a Villa Spada, non la sostanza.
Guerra e pace, mi viene da dire, scomodando Tolstoj, il Tolstoj dei bivacchi, degli accampamenti dove soldati, ufficiali e capitani aspettano la guerra, ripulendo le armi, giocando a carte, bevendo e cucinando.
La guerra che irrompe nella vita quotidiana è questo. E’ una guerra che imbastardisce tutto ciò che tocca. Imbastardisce i luoghi: la chiesa che non è più chiesa, ma teatro di violenza, poi scuola improvvisata, in ultimo ospedale da campo, galleria mostruosa di feriti e agonizzanti; il cimitero quasi una latrina e la villa, un accampamento. La guerra imbastardisce i cibi, i sapori (la carne che forse è gatto, forse topo, forse chissà), gli odori. Ibrida tutto. La famiglia Spada pure si trasforma, diventa un esercito con un suo capitano (Donna Maria) gli ufficiali, le spie, i soldati, la diplomazia che si esplica nelle cene (luoghi neutri di patteggiamento, capolavoro di protocollo e di etichetta), gli alleati, i disertori, i caduti, gli eroi! La guerra sta imbarbarendo anche noi, dice Paolo a un certo punto. D’altro canto, i soldati accampati perdono la voglia di combattere: il contatto con la vita domestica degli Spada e la lontananza dalla trincea li infiacchisce, li smemora, li rende attaccati alla vita nei suoi aspetti più quotidiani. 
La Grande Guerra resta sullo sfondo, ma non si dimentica. Indizi la rivelano di continuo (la maschera antigas ci ricorda la battaglia di Ypres, l’aereo su cui vola Brian, gli alleati, e la trincea è sempre nei pensieri dei personaggi, anche se non viene descritta).
Il sentimento di Caporetto grava su tutte le pagine, è un senso di stanchezza diffusa, di angoscia opprimente. E tuttavia non manca Vittorio Veneto, la speranza, dalla prima all’ultima pagina, e la speranza viene dal Piave (anche lui combatte la sua guerra con gli italiani), occhieggia qui e là, mormora, nelle parole dei personaggi, nei loro pensieri, nei loro atti di eroismo.
Dopo questa guerra, nulla sarà più come prima. “La guerra fa le cose semplici”, rimescola le gerarchie, le certezze. Gli Spada, per esempio, sono aristocratici e riconoscono nei capitani che giungono alla villa dei loro consimili. Hanno avuto la stessa educazione, la stessa cultura, condividono le medesime passioni e persino una affinità elettiva. I contadini di Refrontolo, invece, sono guardati con disprezzo e con sospetto, sono diversi, provano invidia e rancore verso i signori, sono pronti a tradire. La guerra rimescola le carte. I capitani nemici sono nemici, e inflessibili. Il popolo di Refrontolo invece si stringe ai signori: con le facce gravi, scure, tutto il paese è presente alla scena finale. Non ci sono più contadini o nobili, signori o serve, ma austro-germanici contro italiani. Lo ha capito anche il nonno Guglielmo, così scettico! 
Nella tragedia della guerra, l’Italia, “questa operazione mal riuscita” …per la prima volta, forse, riesce!

La scrittura di Andrea Molesini è una scrittura di cose, di oggetti, di attrezzi, di odori, di puzze, di consistenze. E’ una scrittura fatta di materia, lontana dall’astrazione. Una scrittura sensuale perché sollecita tutti i sensi. E’ una scrittura che non vuole edulcorare, che non sa alleggerire o nascondere, perché ogni censura o alleggerimento sarebbe affettazione. Anche le metafore non servono ad ornare una prosa che non ne ha bisogno, servono a fotografare i concetti a fare concreto l’astratto, a dare consistenza a ciò che sarebbe smaterializzato.
Le parole in questo romanzo pesano perché non sono casuali, e si sente che vengono dalla ricchezza di chi, traducendo, ha imparato che non tutti i sinonimi sono uguali e che ci sono immagini nate per far male al lettore nella loro sincerità e crudezza, e che sarebbe un peccato mortale smussarle. Questa lettura è stata particolarmente importante per i ragazzi del nostro liceo, non solo per il portato di riflessioni che ne è scaturito, ma anche perché ha fatto comprendere loro quanto uno strumento linguistico così pieno possa essere seducente: ci permette di descrivere, narrare, esprimere, scavare ciò che vediamo, viviamo, sentiamo, pensiamo senza approssimazione, e affascinando. 
E in un’epoca di spaventosa semplificazione lessicale questo è, fuori da ogni dubbio, sorprendente.
Marzo 2012, Gravina in Puglia
Liceo G. Tarantino

giovedì 28 agosto 2014

Per lei voglio rime chiare


“Amore mio nei vapori d’un bar
all’alba, amore mio che inverno
lungo e che brivido attenderti! Qua
dove il marmo nel sangue è gelo….” (Alba, da Il passaggio di Enea)

Periodicamente si torna dove il cuore batte più forte.
La poesia di Giorgio Caproni muove da vecchie primavere. Si confonde e sovrappone al Canzoniere di Saba con cui condivide quella che De Robertis ha chiamato “epopea casalinga”. E di quest’aria familiare, l’aria natia, per citare un passaggio caro a entrambi, voglio oggi impregnarmi e impregnare anche voi che mi leggete.


Storia di una lettura
È il 2006, forse febbraio, forse marzo. L’inverno sta finendo, la primavera è nei colori delle vetrine in centro, la mia giornata è confusa, accelerata, troppo piena, dilatata, divisa in mille scenari e scandita da viaggi in treno e continui spostamenti. Frequento la SISS, scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario. A ritmi sostenuti si studia, si frequentano lezioni, si entra in classe per il tirocinio, si raccolgono firme, si impara (male) una professione sotto ripetuto bombardamento di input contraddittori, si afferrano, spesso a caso, informazioni, suggestioni, consigli, ammonizioni.
In tutto questo, si colloca Giorgio Caproni e una raccolta di poesie, un’antologia striminzita edita da Tea, nella collana Poeti del Nostro Tempo, giunta delle mie mani per consiglio di un insegnante, non so più dire nemmeno chi fu e perché, ricordo solo che il suggerimento non aveva nessuna attinenza con gli esami in corso, non era parte di una bibliografia formale, né obbligatoria né facoltativa, era solo espressione del suo gusto personale che egli aveva voluto condividere con noi studenti in un momento di amena divagazione.
La scoperta di Caproni nasce fuori dall’Accademia, lontano dagli insegnamenti d’Ateneo, dai manuali di letteratura, nasce su un Regionale stracolmo di pendolari, mentre me ne sto in piedi malamente appoggiata a un sostegno, la borsa che penzola di lato, il libro in una mano - l’altra è occupata!- ed è un’impresa anche solo voltare pagina. E quindi come per Cesare Pavese (Vedi post I mari del sud. Lavorare Stanca) non aspettatevi critica letteraria o recensioni, qui sotto troverete solo espressione di pura, personalissima passione. Che voglio condividere, come a suo tempo, fece con me quel professore.

Il seme del piangere. Annina…
L’edizione in mio possesso, del 1996, è preceduta da un’introduzione di Pietro Citati ed è curata da Mario Santagostini. Ripercorre tutte le raccolte di Caproni - compresa Res amissa pubblicata postuma- selezionando per ciascuna alcune poesie, quasi solo a titolo esemplificativo. Nel 1999 è stata pubblicata da Garzanti l’intera opera del poeta in edizione critica, a cui ci si può affidare, se l’assaggio antologico ci lascia insoddisfatti.
Perché leggo periodicamente Caproni sebbene non lo abbia mai “studiato” a dovere?
Non è la scelta anti-novecentesca, non è la relativa facilità dei versi, non è il rifiuto di un lessico astruso e involuto. Credo che c’entri con le rime chiare, usuali, in –are. Con il ritmo dei frequenti enjambement, ondivago. E soprattutto con Annina, il personaggio che anima la raccolta de Il seme del piangere.
Annina non è semplicemente la madre del poeta, il suo ricordo reale, ma la rievocazione di Anna Picchi-ragazza in una veste quasi leggendaria, mitica, la ricostruzione di una gioventù livornese che Giorgio Caproni non ha potuto vedere con i propri occhi e che non esiste più, ma che scaturisce dai racconti di chi c’era, da vecchie fotografie, dalla pietas di chi vuole riportare in vita uno spazio e un tempo morto, ma ancora carico di voci, profumi e corpi.
Annina è schietta. E tale deve essere la poesia che la rappresenta. “Rime non crepuscolari/ ma verdi, elementari”. E suoni fini, di mare.
“Come scendeva fina/ e giovane le scale Annina!/ Mordendosi la catenina / d’oro, usciva via/ lasciando nel buio una scia/ di cipria che non finiva”:  la prima strofa de L’uscita mattutina è così piena di /i / che sembra cinguettare mentre si riempie della risata di Annina e la sua presenza, vergine e schietta, s’impone con esuberanza col “tacchettio” di cui tutta la contrada risuona. “Andava col volto franco/ (ma cauto, e vergine, il fianco.)”  
La ricamatrice Annina ha la forza poetica di altre fanciulle che abitano le stanze della nostra memoria letteraria. È sorella di Silviaall’opre femminili intenta” di cui condivide la giovinezza intatta e caduca:“ Nel sole era il cantare,/ candido, d’un canarino./ Vedevi il capo chino/ e (acre) strappare/ coi denti la gugliata/ nuova, per ricominciare” (La ricamatrice); ha la spensieratezza di Nausicaa che gioca con le sue ancelle prima che lo straniero giunga a turbare la sua innocenza spumeggiante, echi omerici si sentono nella visione moderna del poeta che osserva dalla finestra nuove fanciulle: “ Le magre giovinette in avvenire/ che rimbalzano la palla di gomma/ sudano delicate nel cortile/ di cemento ove giocano…” (La palla); Annina ha più carne delle inattingibili donne montaliane, racconta una città di provincia, si confonde con essa.

…e Livorno
Livorno ventilata, tutta riviere, solare e odorosa di mare. Livorno “vezzeggiativa”, giovinetta tra le giovinette. Livorno, tutta invenzione poetica.
Anima mia, leggera/ va’ a Livorno, ti prego./ E con la tua candela/ timida, di nottetempo,/ fa’ un giro; e se n’hai il tempo,/ perlustra e scruta/ e scrivi/ se per caso Anna Picchi/ è ancor viva tra i vivi”. Ma Livorno è cambiata, il poeta adulto lo sa, non per questo smette di cercare. Forse, ma non è detto, serberà il ricordo di quel “rubino/ di sangue sul serpentino/ d’oro che lei portava/ sul petto, dove s’appannava” (Preghiera), un ricordo che, nella poesia, ritrova tepore e consistenza, dolcezza di carne pulsante.
Annina è andata via. Il suo congedo, Il carro di vetro che procede nel sole e non c’è pioggia neppure allora. Nella poesia per Annina, nemmeno nella “prima mattina/ del suo non potersi svegliare” il sole manca. Per lei le rime restano chiare. Al poeta, invece, resta un’acuta spina. Quattro cavalli (neri) senza sonaglio. E la sveglia militare di una caserma - che non si è accorta di cotanta assenza.

Barbaglio
Poi, le ragioni del batticuore sono sempre personali.
Si attinge alla poesia con l’occhio acuto del critico che sminuzza, smonta e riconnette oppure con l’ingenuità del sognatore, con la diligenza annoiata dello studente o con l’impeto romantico dell’artista che cerca ispirazione o sfogo ai suoi furori.
Io, nella poesia, finisco sempre per cercare l’autobiografia, la mia storia, il mio passato, me stessa.
Qui la chiave è in Barbaglio. Tre ragazze sbracciate, Annina Elettra e Ada, che profumano la strada. Le guardano i giovani in mezze maniche. Il petto, in boccio, che grida per dispetto.
Ecco il senso, mi dico.
Rievoco io pure Annina e le sue sorelle, Annina Emilia e Ada. Dal fondo di ricordi, manipolati e coltivati collettivamente dalla mia epopea familiare, ritrovo mia nonna - Anna - e la sua gioventù gigantesca, innocente e maliziosa. Lontana e mitica anche lei, che quasi non ho conosciuto. La sovrappongo ad Anna Picchi e carico la poesia di coincidenze solo mie.
Faccio mio l’affetto che fu di Caproni, la nostalgia, il rimpianto di una giovinezza d’altri tempi - tempi chiari e schietti.
Che sia questa l’universalità della poesia di cui tutti parlano?
La bizzarra corrispondenza biografica, partendo da Il seme del piangere, mi ha fatto conoscere l’intero Caproni, magari in un modo poco usuale, poco ortodosso, ma con la devozione di chi non rinuncia all’identificazione quando legge e per questo legge con più forza.


Giorgio Caproni è un poeta che in quinto liceo non si studia, in genere. Forse lo si legge al volo, a braccetto con Vittorio Sereni. Peccato. 
Fra tante tesine sul male di vivere e sulla crisi d’identità sarebbe una ventata di freschezza, uno sguardo di mare, una risata carnale di donne al sole. 

martedì 26 agosto 2014

Il pendolo di Foucault tra esoterismo e parodia

Edizione Bompiani
Che un romanzo riuscisse a spaventare, annoiare e divertire al tempo stesso non l’avrei ritenuto possibile. 
Il pendolo di Foucault lo fa. E credo che Umberto Eco abbia messo in conto tutto. La suspense, l’intrigo, il mistero, l’ironia, la parodia, il sarcasmo. E non ultimo la noia, quella che viene dalle lungaggini dottrinali, da una meticolosa ricerca di documenti, di falsi, di erudite pedanterie sapienziali che, parodia o meno, il lettore deve sorbirsi e di cui NON PUÒ fare a meno, se vuole godere del senso profondo di questo romanzo.
Non so dire esattamente quanto tempo ci abbia impiegato a leggerlo: lo associo all’inverno, a interminabili viaggi in treno fra paesaggi nebbiosi e ritardi cronici, a serate solitarie trascorse sotto una stratificazione maldestra di coperte.
Ho divorato pile di libri piacevoli, di cui ricordo a grandi linee solo la trama, li ho consumati in fretta, in pochi giorni con l’avidità compulsiva di chi è già proiettato all’acquisto successivo.
Il pendolo di Foucault non appartiene a questa categoria.
680 pagine, caratteri di stampa pro-miopia, un apparato dottrinale che non potevo espungere senza compromettere il senso del testo, un lessico, talvolta ricercatissimo, che richiedeva sovente l’“aiutino” del dizionario, una continua, faticosa, dispersione della narrazione in mille rivoli. Per terminarlo è occorsa pazienza. Quando sono giunta alla fine, all’ultimo punto e a capo, a quello definitivo, l’impresa mi è parsa eroica, ma la lettura non è passata invano. Non è di quelle che scivolano. Non è un sorbetto al limone tra un piatto forte di pesce e uno di carne. Qui siamo di fronte a un arrosto esagerato, come dire… trimalchionico!
Il secondo romanzo di Eco[1] mi ha lasciato in eredità riflessioni, domande, amarezze, ma soprattutto il desiderio di una continuazione, bisogno che, in corso d’opera, avrei ritenuto improbabile.
Dopo aver atteso la fine del romanzo con impazienza, mi sono ritrovata a rimpiangere una scrittura che non indulge a semplificazioni e sciatterie; una narrazione abbondante, lutulenta, invischiante, che difficilmente avrei ritrovato in altri autori; una narrazione caustica contro le velleità artistiche, le ingenuità imperdonabili e i narcisismi che si riconoscono nei personaggi del romanzo, e in gran parte di noi lettori. Me compresa.

Incipit
Fu allora che vidi il Pendolo.
La sfera, mobile all’estremità di un lungo filo fissato alla volta del coro, descriveva le sue ampie oscillazioni con isocrona maestà.
Io sapevo – ma chiunque avrebbe dovuto avvertire nell’incanto di quel placido respiro – che il periodo era regolato dal rapporto tra la radice quadrata della lunghezza del filo e quel numero π che, irrazionale alle menti sublunari, per divina ragione lega necessariamente la circonferenza al diametro di tutti i cerchi possibili – così che il tempo di quel vagare di una sfera dall’uno all’altro polo era effetto di una arcana cospirazione tra le più intemporali delle misure, l’unità del punto di sospensione, la dualità di una astratta dimensione, la natura ternaria di π, il tetragono segreto della radice, la perfezione del cerchio
Infeltrita
Nell’unico respiro con cui si legge questo incipit, il Pendolo si mostra già con prepotenza come simbolo di una “arcana cospirazione” che travalica i confini temporali e si perpetua nella storia, generazione dopo generazione sotto tanti nomi.
Il lettore si trova di fronte a dieci parti, a loro volta suddivise in numerosi sottocapitoli. Il numero dieci, ovviamente non casuale, ci riporta ai Sephirot della Cabala ebraica, i mezzi attraverso cui si rivela l’Eterno. Parti e capitoli sono scanditi da citazioni puntualissime che, in epigrafe, ripercorrono una sterminata bibliografia esoterica, mistica, magica, alchemica di ogni tempo. Un contrassegno di erudizione che ci confonde volutamente, ma a cui ci si deve abituare perché, in varie forme, caratterizza tutta l’opera. Un tuffo nel filone magico che la cultura occidentale, da sempre, si premura di tenere a margine, se non di occultare del tutto.
La struttura narrativa è labirintica, come una ricerca condotta in uno smisurato archivio, senza indicazioni precise. Una ricerca in cui tutto sembra importante e tutto ci allontana dal punto di partenza e da quello di arrivo. Il tempo è lento. Lo spazio disorganico, prevalentemente chiuso.
Rappresentazione dei Sephirot secondo la Cabala ebraica
Il romanzo prende le mosse dal Conservatoire des Art set Métiers di Parigi dove è conservato un esemplare del pendolo di Foucault e dove Casaubon, protagonista e narratore, si nasconde per assistere alla riunione dei Signori della Convenzione, che si terrà oltre l’ora di chiusura del museo. La tensione è subito alta. L’attesa massacrante. I Signori, qualunque cosa rappresentino, saranno pericolosi, ammantati di segretezza, decisi a portare a compimento il Piano, il Complotto Universale che muove da epoche lontane e, per vie sotterranee, si perpetua secolo dopo secolo, catturando la credulità, il bisogno di mistero, di esoterismo, di irrazionale che alberga nella gran parte degli uomini.
Tre intellettuali, Casaubon, Belbo e Diotallevi, con la complicità di una casa editrice spregiudicata, decidono, per divertimento, di gabbare quanti mostrano di credere alla Teoria del Complotto e, recuperando l’intera letteratura mistica, esoterica, occulta, iniziano a mescolare le carte, a creare messaggi in codice e segni, a ordire, a tavolino, un Piano che funga da esca per portare allo scoperto massoni, settari, individui sinistri che trascorrono la vita (agiata e oziosa) a riesumare antiche tradizioni diaboliche. Il gioco, però, si fa serio. Sembra sfuggire di mano. Perché c’è sempre qualcuno pronto a credere al piano e a servirsene per esercitare potere sugli altri. E gli stessi intellettuali sembrano a un certo punto diventare vittime della loro stessa cospirazione.
Il lettore, insieme ai tre personaggi principali resterà sospeso a mezza strada tra l’ironia più tagliente nei confronti dell’irrazionalismo, che mina di superstizione persino i settori più insospettabili della scienza, la parodia nei confronti di quella paraletteratura nutrita di templari, segreti, codici, misteri, intrighi inverosimili, l’esercizio di una scanzonata goliardia (di cui anche il lettore è vittima) e un oscuro senso di minaccia costante, di pericolo incombente, imprecisato.
E se il Complotto, sbeffeggiato e deriso, esistesse davvero? E se il segreto dei templari, catari, RosaCroce, gesuiti, anziani, illuminati e diosacosa esistesse davvero?
La corsa verso le pagine finali vede la riduzione della componente parodica e il crescendo di esperienze soprannaturali e inspiegabili.
E se l’irrazionalità trionfa, allora quale messaggio vuole inviarci l’autore?
La sua è o non è una presa di posizione contro l’irrazionalità e il misticismo superstizioso?

“Da quando gli uomini non credono più in Dio, non è che non credano più a nulla, credono a tutto”

Zoom
Mi hanno colpito considerazioni sparse qui e là che, profeticamente, precorrono i tempi e abbracciano la nostra realtà contemporanea.
§         Il romanzo è stato pubblicato nel 1988, i Personal Computer cominciavano, molto lentamente la loro ascesa e un programma di videoscrittura, come può essere il per noi arcinoto Word di Office o qualunque altro suo corrispondente, suscitava nell’autore perplessità condivisibili e un certo sarcasmo. Al punto da attribuirgli il nome di Abulafia, una parola che ha in sé l’abulia (il calcolatore è ottuso) ma anche for-faris parlare. Parlare a vanvera. Il personaggio di Belbo affida i suoi ricordi ad Abulafia, perché schermato dalla segretezza di una password si sente protetto da sguardi indiscreti; perché digitare parole sulla tastiera lo fa sentire meno a disagio che impugnando una penna. Belbo è infatti uno scrittore mancato, diciamo pure autocensuratosi. Abituato, da studioso fine qual è, ad avere a che fare con i Grandi sa di non esser degno di pubblicare qualcosa di proprio. Saggiamente (e pavidamente) non si sottopone all’umiliazione del giudizio altrui. Ma la voglia di scrivere è forte e il calcolatore, neonato, glielo consente impunemente. Peccato, che la segretezza della password (da Eco in tempi a-digitali chiamata il password, cioè il lasciapassare) venga beffata subito da Casoubon che la decripta e sbandiera tutte le velleità letterarie represse dell’amico Belbo, non senza punte di cattiveria. Abualfia come antenato del selfpublishing, come sdoganamento della scrittura, che ne pensate?
§         Se Belbo è uno scrittore castrato, tanti sono invece gli scrittori vanesii, in preda a un ingenuo narcisismo che li getta nelle fauci della Manuzio, tipico esempio di editoria a pagamento, “con fatturato altissimo e spese di gestione nulle”. Sue vittime sono gli APS. Gli Autori a Proprie Spese. Le pagine, puntualissime e minuziose, dedicate alla descrizione del funzionamento di queste “imprese della vanità” hanno fatto storia. E sono gustosissime e cattivelle. Ma servono ancora, perché il messaggio non a tutti è chiaro.
§         La trama, che percorre i binari della parodia, parte dai templari. Perché la letteratura fatta di intrecci improbabili, complicatissimi, di coincidenze e di enigmi parte sempre da loro. Nel 1988 ancora non si era manifestato il fenomeno Codice Da Vinci, ma state certi che dovunque si raccontasse di templari, comunque si ricorreva ad arcane cospirazioni, segreti e misteri. E da qualche parte c’era qualcuno pronto a crederci. C’è sempre qualcuno pronto a crederci. A superare le barriere della letteratura(?) per mettersi alla ricerca di segni. Di questa storia parallela, misteriosa, pasticciata, contraffatta, estremamente ingenua Umberto Eco si fa beffe.

E il lettore, che si identifica troppo, che troppo si lascia coinvolgere da questo romanzo, ne vien fuori malconcio…





[1] Il primo è Il nome della Rosa del 1980, indiscusso capolavoro.

lunedì 25 agosto 2014

Dialoghi con #Leucò di Cesare Pavese, nell’edizione aumentata a cura di @TwLetteratura

Oggi parliamo di un classico, di un’esperienza di lettura collettiva, di un esperimento di riscrittura in pillole e di un progetto lungimirante. #Leucò.
Ancora una volta ritorna tra queste pagine Cesare Pavese (Vai a I mari del sud. Lavorare stanca), non più per i suoi versi e non ancora per i suoi romanzi.
Siete pronti?
un click per acquistare l'e-book

Il classico
Dialoghi con Leucò è una raccolta di ventisette dialoghi che hanno come protagonisti, figure più o meno note di numerosi miti greci, scelti non tra i più frequentati. Un confronto dialettico, serrato, su un ampio spettro di temi/problemi profondamente umani, che coinvolge coppie di personaggi scelti fra ninfe, eroi, titani, forze primigenie della natura, divinità antiche e moderne, violente e pacifiche, razionali e irrazionali.
Un’opera preziosa, scritta tra il 1945 e il 1947, da cui Pavese si aspettava molto, ma che lasciò i contemporanei perplessi e per lungo tempo silenziosi. Il mito greco, considerato appannaggio dei filologi classici, degli accademici specializzati e di un apparato di professori lontani dai circuiti editoriali moderni, probabilmente era percepito come argomento elitario, desueto, vicino alla retorica magniloquente delle ideologie totalitarie oppure ritenuto una manifestazione di disimpegno e di fuga dalla realtà.
In realtà, i ventisette racconti di Pavese, tersi e algidi come gemme, ci mostrano quanto l’universalità del mito non sia solo un’etichetta altisonante. 
Occasione per sondare temi che appartengono alle viscere della cultura di ogni tempo, i Dialoghi con Leucò offrono un ritaglio dei miti classici, una finestra di problematizzazione che mette a confronto punti di vista divergenti, interpretazioni opposte sui nodi esistenziali dell’uomo, classico o moderno che sia: il tempo e l’eternità, l’amore, la morte, il sesso, il destino, il rimpianto. La fragilità come cifra dell’essere umano.
La mia prima lettura dei Dialoghi risale all’estate 2005.
Una lettura in punta di piedi, delicata, lenta. Volevo spremere al testo quanto più senso ci fosse, imbastire intrecci ad altre letture, seguire suggestioni classiche e non, sgranarlo e ricaricarlo con qualunque contributo il mio (parziale e dilettantesco) punto di vista potesse offrire.
In questo zelo, una mancanza. Gli altri lettori con cui condividere l’esperienza.

L’esperienza di lettura e riscrittura collettiva
Ciò che mancava è arrivato anni dopo, per vie inconsuete. E si chiama #Leucò. Un gioco realizzato su Twitter ad opera della @TwLetteratura, comunità di lettori animata da Paolo Costa, Edoardo Montenegro, Iuri Moscardi, Pierluigi Vaccaneo.
Cosa è #Leucò?
Sotto il noto hashtag si è sviluppata per più di tre mesi (14 gennaio  al 4 aprile 2013) un’intensa esperienza di lettura collettiva che ha permesso a me e ad altri 300 appassionati di rileggere i Dialoghi di Leucò, dedicando tre giorni a ciascun dialogo, e provando, dapprima con un po’ di pudore, poi con più coraggio ed esuberanza, a riscrivere, citare, variare, riassumere, interpretare, sminuzzare, strizzare le parole di Pavese che più sentivamo “vicine”. Il tutto in 140 caratteri, come imponeva la struttura del Social
Pillole letterarie assortite. Gioco di analisi e di sintesi. Ermeneutica 2.0. Bellissimo esperimento.
Per ogni dialogo è stato scelto un responsabile, chiamato (per restare in tema!) Titano, che aveva come scopo promuovere quanto più possibile la condivisione dei tweet e, alla fine, di selezionare i più significativi per costruire un tweetbook, una sequenza di riscritture parcellari che, insieme, ricomponevano una nuova storia, un nuovo dialogo, secondo l’ordine che al curatore pareva più interessante.
I 27 tweetbook ufficiali, alla fine, hanno testimoniato l’intera attività, creando fra i lettori/riscrittori un senso di appartenenza basato sulla lettura comune, sulla devota dedizione al libro per tre mesi, sullo sforzo di comprenderlo e di avvicinarlo alla propria realtà quotidiana e al proprio bagaglio esperienziale, emotivo, immaginifico. Sensibilità di lettura diverse si sono incontrate e mescolate. Dal basso, da una prospettiva popolare, abbiamo agganciato un classico e ce ne siamo appropriati.
Ciò che ero abituata a fare in solitario, finalmente diventava operazione comune, e perciò stimolante, potente, arricchente.
In una parola, è stata una lettura moltiplicata. 

L’edizione aumentata.
Pochi mesi fa Palabanda edizioni ha ottenuto da Einaudi la cessione dei diritti per la pubblicazione dei Dialoghi con #Leucò in formato e-book.
Nella nuova edizione, prefazione e introduzione spiegano le ragioni del progetto, ne chiariscono l’intento di ricerca sul rapporto tra i nuovi media e la letteratura, ma soprattutto sottolineano quanto positivo sia stato il coinvolgimento di un pubblico ampio nella interpretazione del testo, operazione tradizionalmente affidata alla critica specialistica e poi ufficialmente divulgata dall’altrettanto tradizionale canale della scuola.
Come si legge nello stesso titolo, questa nuova edizione è definita “aumentata” dal momento che alla fine di ogni singolo racconto, i curatori propongono una selezione dei tweet di riscrittura che già facevano parte dei tweetbook ufficiali.
Prima c’è il testo originale. Puro. Non interrotto da commenti né gravato da note a piè pagina. Il testo deve restare protagonista indiscusso della lettura, sempre.
Poi vengono i cinguettii. Le nostre schegge. Un assaggio di quella tempesta di riscritture che fu #Leucò. 
Voci molto diverse che hanno trovato un’armonia tra loro e che vengono dal testo originale e al testo ritornano dopo aver battuto strade proprie e personali. Perché la lettura è sempre un’operazione circolare.
E qui sta il mio consiglio di oggi. Se non avete ancora un’edizione dei Dialoghi approfittate di questo e-book. E anche se ne avete già una, non perdete l’offerta. Sarà un’occasione per rileggere un’opera straordinaria e confrontare la vostra lettura con la nostra. Per sentirsi parte di una comunità che legge, interpreta, riflette, cosa non da poco.

Il progetto (anzi il metodo)
La @TwLetteratura intanto è diventata un progetto, anzi un metodo di lettura basato sulla riscrittura e sulla condivisione. Moltissimi sono i riconoscimenti ottenuti e gli articoli che ne palano.
Se siete interessati e volete saperne di più, questo è il sito ufficiale: www.twletteratura.org
Nel corso dei mesi ci sono state altre iniziative sul modello di #Leucò: per esempio, a me è piaciuta moltissimo #invisibili, dedicata a Le città invisibili di Calvino, dove riscrittura e immagini spesso hanno arricchito di colori e disegni bizzarri lo già smisurato immaginario legato all’opera e all’autore; interessante anche #TwSposi che ha coinvolto molte scuole e appassionato centinaia di alunni nella riscrittura de I promessi sposi; #Lussu ha recuperato un classico quasi dimenticato: Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu; #TwPrimi infine, proprio in questi giorni, propone la riscrittura di un romanzo recentissimo: La solitudine dei numeri primi di Paolo giordano. Perciò se volete partecipare, siete ancora in tempo
In occasione di #invisibili è stata persino organizzata una mostra che raccoglieva le illustrazioni nate ad opera di alcuni lettori “eccellenti”, come Alessandro Armando che è l’autore della copertina dell’e-book che vi sto presentando. 
La @TwLetteratura è un metodo che esalta la creatività e dimostra (ma noi lettori lo sappiamo già da tempo!) che la lettura non è affatto un’operazione passiva, perché il lettore crea al pari dell’autore, plasma, si arricchisce e arricchisce il mondo di senso – e, ne  siamo convinti!, anche di buon senso!
@russoprof lo stupore delle divinità per l'eterno
surclassa l'invidia dei mortali per l'eterno.
Perché è col tempo che nascono i racconti. #Leucò/24


giovedì 21 agosto 2014

Puzzle di Marco Giannino



Autore: Marco Giannino
Titolo: Puzzle
Genere: Silloge poetica
Editore: CoreBook
Anno di pubblicazione: Luglio 2014
Costo: 2,99 euro
Formato: e-book ( PDF e EPUB)
Codice ISBN:978 88 99085 032



Eccomi oggi con una novità InVersi, per dirla con le parole di questo Blog.
Vi presento Puzzle, una raccolta di poesie offertami dal suo giovanissimo autore, Marco Giannino, classe 1992, studente, alla sua prima esperienza di pubblicazione.
Il libro comprende 35 componimenti di lunghezza variabile che toccano molti temi: il tempo, la solitudine, l’amore, il mondo e il suo disordine. Su tutto, l’inquietudine - che è cifra della giovinezza ed emerge soprattutto in quelle poesie, le mie preferite, dove più forte s’impone l’IO: “Sono un’instabile atrofia” “Ti giri, rompi vetri e vasi. Vorresti ribaltare anche te stesso” “E io piango e scavo le parole. Mie cicatrici”. 
Il lessico è semplice, lontano da eccessi di retorica; nella versificazione, libera senza rime, si intuisce attenzione al ritmo e alle pause. E così, dalla lettura, si ricava una sensazione ariosa.
Questi versi esprimono una grande voglia di comunicare e di raccontarsi.

Infeltrita
Come in un puzzle che si rispetti, in questa silloge, c’è un disegno di fondo (l’ordine che l’autore ha scelto) e c’è il caos del rimescolamento (la tentazione, propria del lettore, di pescare componimenti a caso). Su queste due istanze - l’ordine e il disordine – sembra viaggiare la sensibilità dell’autore.
Il titolo riprende il componimento di chiusura, che è anche un esperimento di meta-poesia e ci illumina sulla genesi della raccolta e su come bisognerebbe leggerla: due voci si rincorrono, in contrappunto, nel tentativo di fermare sulla carta la poesia perfetta e di trovare un senso tra i versi, magari smontandoli e rimontandoli in ordine nuovo. È un invito al lettore che deve, a suo modo, collaborare, navigare tra le pagine modificando, se crede, la direzione indicata dal timoniere. 
E se il senso continua sfuggire, dice Giannino, allora meglio vivere, tenersi i giorni vissuti e l’esperienza.

Temi che ho rintracciato e che potrebbero incuriosirvi:
  1. il tempo: l’urgenza del presente è una giostra di sensazioni (immagine che ritorna più volte). Non c’è posto per il passato in questa raccolta, il tempo si misura nell’istante da non perdere perché la “ragazza morte” danza e festeggia tutt’intorno (come si legge in Uomini, una sorta di danza macabra sul modello di quelle del Trencento).
  2. la solitudine: l’io poetico la ricerca più volte, come un rifugio “Lasciatemi solo, ho bisogno di un corpo terso/E foglie pudiche per nascondermi”, a volte però si rende conto che essa può avere anche un volto più duro e diventa senza mezzi termini: “solitudine d’angoscia
  3. l’amore: in alcune poesie emerge una donna, soprattutto gli occhi, il suo sguardo “nel giro di una sigaretta/ Mi piace immaginarti dall’altro capo del fumo”, la sensualità e la purezza: “Ma aspettami ti prego/ E giuro che i tuoi occhi celesti riceveranno un giglio in dono”. Non si individuano le fasi esatte di una storia d’amore, anche qui domina la logica del mosaico e del disordine. E corrispondenza e rifiuto, rabbia e dolcezza si mescolano.
  4. il mondo: il mondo esterno è guardato a distanza: è un teatro di guerra, una gabbia di matti da cui l’autore sembra autoescludersi. Salvo, poi, riscattare i buoni esempi, uomini che al di là delle ipocrisie sanno amare, amarsi, offrire amore e riscatto dalle ingiustizie.
  5. la poesia: la ricerca di un linguaggio, di un verso, di un ritmo diventano essi stessi oggetto poetico. E ci aiutano a capire meglio il lavoro di scrittura dell’autore, ci sintonizzano sulle sue corde.
Ho apprezzato maggiormente i componimenti in cui l’urgenza espressiva e il carico emotivo sono stati “domati” e contenuti dal lavoro di limatura e di politura del verso. Quelli in cui l’originalità della singola immagine – fulminante - ha potuto fare a meno delle anafore (che non amo molto) e della “ripetizione con variazione” di un concetto, struttura che appesantisce il tessuto poetico, altrove lieve ed elegante.

Consiglio questa raccolta poetica ai miei lettori più giovani, che fra queste pagine potrebbero trovare uno specchio alle loro emozioni, alla rabbia, al desiderio, al bisogno di libertà, di solitudine. A pensarci bene, la consiglio anche ai miei lettori più âgée, perché in questi tre giorni di poetica immersione ho potuto riassaporare la vitalità dei vent’anni. 
E, vi dirò, mi sono mancati! 

mercoledì 20 agosto 2014

La ragazza dai capelli strani di David Foster Wallace

L’Infeltrita di oggi, miei cari, è dedicata a una raccolta di racconti di David Foster Wallace: La ragazza dai capelli strani, casa editrice Minimum Fax.
L’acquisto risale allo scorso aprile, come pure la lettura sbriciolata sull’ autobus all’alba nel corso del viavai da pendolare che mi toccava.
Un acquisto deciso di getto, il mio, sebbene non avessi avuto accesso ad alcuna recensione precedente.
In ordine di importanza i motivi che hanno reso immediata la mia scelta sono stati:
  1. l’autore, di cui avevo già letto LA SCOPA DEL SISTEMA un romanzo sensazionale, strepitoso, esilarante (Vai al POST);
  2. il titolo, in cui, grossomodo, mi riconoscevo (anche se questo me lo ha fatto notare mio marito!)
  3. la copertina elegante, bianca e azzurra, con un televisore anni sessanta sulla sommità che prometteva, ancora una volta, la critica scorticante al mondo della TV e una immersione totale nella società dei consumi, delle mode, dei gerghi giovanilistici, isteria compresa;
  4. la casa editrice, che finora non mi ha mai deluso.
La copertina. Bellissima. E un po' pasticciata.
Lo confesso, avrei preferito un romanzo, per una sorta di istintiva diffidenza alla forma del racconto. Che non mi permette di affezionarmi ai personaggi e che, con la sua parcellizzazione narrativa, ostacola qualunque processo di immedesimazione. Dentro di me si nasconde, infatti, e neanche troppo a fondo, un lettore ingenuo che ogni tanto chiede di emozionarsi con le storie lette, una negletta Bovary che fa i capricci. E si sa, al lettore medio italiano i racconti piacciono poco.
E tuttavia la mia ritrosia viene meno quando mi trovo di fronte ad autori che, al di là di trame e personaggi, ci offrono una scrittura da cui non si può che essere soggiogati. Sia che si offra a lunghe narrazioni, sia che proponga la breve perfezione di un racconto. Come Alice Munro, per esempio, (Vai al POST) e come alcuni dei racconti che Wallace presenta in questa raccolta dal titolo bizzarro.
Variando un po’ lo schema delle recensioni, vi presento la carrellata degli incipit di ciascun racconto. In alcuni di essi vi è una potenza che basta come invito perentorio alla lettura. E poi ci sono i titoli, che offrono uno spaccato dell'avanguardismo proprio di questo autore.
Segue una mini-infeltrita che li commenta tutti.

Incipit Gallery
  1. Piccoli animali senza espressione: È il 1976. Il cielo è basso e pieno di nubi. Le nubi grigie sono bitorzolute, increspate, lucenti. Il cielo ha un aspetto cerebrale.”
  2. Per fortuna il funzionario commerciale sapeva fare il massaggio cardiaco: “Un Funzionario Commerciale, divorziato di fresco, terminò l’ennesima serata di straordinari nel suo ufficio, nel Reparto Commerciale. In un altro ufficio, all’estremità opposta, di un altro piano, il Vicepresidente Responsabile della Produzione Estera della stessa ditta, sposato da quasi quarant’anni, nonno di un nipotino, finì anche lui molto tardi
  3. La ragazza dai capelli strani: “Gin Fizz aveva sognato che se ieri sera non vedeva un concerto sarebbe diventata una qualche specie di liquido, perciò ieri sera io e i miei amici Mister Wonderful, Big e Gin Fizz siamo andati a vedere Keith Jarrett che suonava un concerto per pianoforte all’Auditorium di Irvine
  4. Lyndon: “«Mi chiamo Lyndon Baines Johnson. Quel cazzo di pavimento che hai sotto i piedi è mio, ragazzo».
  5. John Billy: “Mi toccò a me dire a Simple Ranger che Chuck Nunn Junior aveva restituito il torto all’uomo che gli aveva fatto torto ed era fuggito per una destinazione che nessuno sapeva immaginare
  6. La mia apparizione: “Sono una donna che è apparsa in pubblico al talk show di David Letterman il 22 marzo del 1989. Per dirla con mio marito Rudy, sono una donna la cui faccia e i cui modi sono noti a qualcosa come a più della metà della popolazione misurabile degli stati Uniti, il cui nome è su bocche, copertine e schermi. E il cui profondo del cuore è invisibile, e nascosto in maniera irraggiungibile. Ed è questo che secondo Rudy mi avrebbe potuto salvare da tutto ciò che quella apparizione comportava
  7. Dire mai: “Una cosa che non è divertente?Il mal di stomaco. Se non mi credete chiedete alla signora Tagus, qui, che vi illuminerà sulla questione. Io, mal di stomaco, niente. Ho uno stomaco fatto di elementi robusti. Artrite sì, mal di stomaco no
  8. È tutto verde: “Lei dice non mi importa se ci credi o no, è la verità, poi tu credi pure a quello che ti pare. Quindi è sicuro che mente. quando è la verità si fa in quattro per farti credere a quello che dice[traduzione di Martina Testa]
L’Infeltrita
Il disagio. Le nevrosi. La solitudine. La massificazione. La mercificazione. La cultura americana, e più in generale quella occidentale, viene fatta a pezzi e messa alla berlina. Dai quiz televisivi al David Letterman Show. Dall’assolo di Keith Jarrett alla maschia volgarità del controverso presidente Lyndon Johnson, tutto è carne da macello.
Primo racconto della raccolta.
La matita per chiosare e pasticciare
“«Restate con noi» dice la televisione. «E dove vuoi che vada? », chiede Dee Goddart, sulla sua poltroncina, nel suo ufficio, di notte nel 1987.” La televisione è il solo punto di riferimento di una cultura che teme persino di chiamarsi tale. Il suo mondo posticcio genera miti e meteore, ma sembra l’unica voce ascoltata da tutti. 
Anche questi racconti bastano a farci rimpiangere l'amata bandana di Wallace. Paragonato da molti a Don DeLillo, D.F.W. è fra gli autori che vorrei consigliare a tutti, indipendentemente dalla difficoltà che un lettore poco esperto (forse) potrebbe incontrare. 

Zoom
Se dovessi assegnare la palma del più bello tra i bellissimi, scelgo il racconto Lyndon. Un racconto perfetto nella sua struttura e geniale nella scelta del soggetto e nella coerenza con cui esso è dispiegato sino alla fine
Wallace ripercorre l’ascesa del presidente con gli occhi del suo collaboratore più stretto, David Boyd, un personaggio di pura invenzione.
La fantasia più sfacciata partorisce una storia-parallela alla storia ufficiale. Ne emerge un Lyndon più credibile del vero, eppure grottesco, volgare, texano fin nel midollo, divertente come solo i personaggi di Wallace sanno essere: “sono il ventisettesimo uomo più ricco della nazione. Ho il più grosso pisello di Washington e la moglie con il nome più carino di tutte”. Che è Claudia Alta, o meglio Lady Bird. La First Lady che cinguetta tra i suoi pasticcini.


martedì 19 agosto 2014

Il signore delle mosche di William Golding. Una visione di rosso e di giallo

Il signore delle mosche di William Golding mi ha fatto compagnia in un ferragosto ventoso, non troppo caldo, trascorso sulla costa ionica della Calabria, tra il Golfo di Trebisacce e la Piana di Sibari.
Oggi non voglio presentarvi una recensione vera e propria - ragionata - piuttosto impressioni di lettura, moti d'animo in subbuglio. 
Sono arrivata tardi a questo classico che da molti è reputato fondamentale, uno di quei cento libri che Piero Dorfles ritiene necessari ad arricchire la nostra vita[1]e che in più occasioni ha citato con lo sguardo di chi conserva lo stupore ricavato dalla prima lettura. E un'intensa commozione che solo adesso capisco.
Ci sono arrivata nutrendo aspettative molto alte, ben sapendo che avevo lungamente rimandato l’incontro con Golding per diversi motivi, tutti assai poco razionali. Del resto, quando scelgo un libro da comprare la ragione ha sempre scarso peso. La resistenza in questo caso era dovuta al rifiuto del genere, “il romanzo a tesi” “l’utopia negativa”, perché temevo che l’istanza argomentativa, la spinta a dimostrare, offuscasse l’innocenza della narrazione, e dell’ambientazione, l’isola deserta, la laguna paradisiaca, perché temevo di dovermi imbattere in un sequel di Robinson Crusoe, classico scansato sistematicamente durante l’infanzia e letto senza troppa convinzione negli anni di università.
Temevo che l’ambiente angusto di un’isola sperduta nel Pacifico potesse prestarsi a una sorta di ripetitività descrittiva, e mi sbagliavo. Anche se l’interesse prioritario per Golding è l’analisi delle dinamiche di gruppo, immediatamente il lettore si ritrova immerso e perduto in una “visione di rosso e di giallo”, tra le ombre verdi della giungla, i miraggi del sole accecante nel mezzogiorno, fra gli orrori tenebrosi della notte e nell’azzurro specchiato della natura. Una deflagrazione di colori che non cessa di svelare angoli sempre nuovi di un ambiente paradisiaco e selvaggio, generoso nel suo rigoglio naturale ma al tempo spesso opprimente e misterioso.
La trama. Un aereo cade su di un’isola deserta. Sopravvive solo un gruppo di ragazzini che dovranno organizzarsi da soli, senza adulti, per sopravvivere. Come va a finire secondo voi?
 
Il signore delle mosche, William Golding
Mondadori - classici moderni. Traduzione di Filippo Donini
Incipit
Il ragazzo dai capelli biondi si calò giù per l’ultimo tratto di roccia e cominciò a farsi strada verso la laguna. Benché si fosse tolto la maglia della scuola. che ora gli penzolava da una mano, la camicia  grigia gli stava appiccicata addosso, e i capelli gli erano come incollati sulla fronte. Tutt’intorno a lui il lungo solco scavato nella giungla era un bagno di vapore. Procedeva a fatica tra le piante rampicanti e i tronchi spezzati, quando un uccello, una visione di rosso e di giallo, gli saettò davanti con un grido da strega; e un altro grido gli fece eco:
«Ohè! Aspetta un po’!»”
L’Infeltrita
Il signore delle mosche di William Golding è un romanzo che ogni insegnante dovrebbe leggere prima di entrare in classe. O se mai si sognasse di uscire dalla classe per non tornare abbastanza presto. 
È come se questo romanzo dichiarasse a grandi lettere il valore dell’educazione e dell’educatore, dell’autorità riconosciuta e dei suoi simboli, dimostrando quanto fragile sia nell’uomo l’equilibrio tra civiltà e natura, e quanto poco basti perché istinti efferati offuschino la ragione e le sue magnifiche sorti e progressive.
Che l’umana specie dia costantemente esempi di brutalità gratuita ce lo raccontano tristemente la storia, la nostra memoria personale e collettiva, e la cronaca più recente. Ma il romanzo di Golding è di più: illumina a luce cruda il mondo dorato dell’infanzia e ne distrugge, dalle radici, qualsiasi residuo d’innocenza e di bontà naturale.
Il signore delle mosche nasce da un esperimento che Golding, in qualità di insegnante, decide di effettuare nella sua classe: divide gli alunni in due gruppi e affida ai ragazzi un tema che si offre a tesi contrapposte - una controversia – in modo che ciascun gruppo sostenga con le proprie argomentazione una tesi difendendola dalla confutazione messa in atto dall’altro gruppo; assegnato il compito, esce dall’aula lasciando agli studenti piena libertà.
Cosa pensate che trovi al rientro in aula? Un insegnante lo sa.
La discussione degenera nel caos e nella violenza.
Gli appunti che Golding raccoglie saranno materiale da cui fiorirà un capolavoro senza tempo - che mi ha coinvolto. Per quella immedesimazione che non ho saputo evitare. Per quella immersione totale nel meccanismo narrativo, micidiale e perfetto. Sino alla conclusione liberatoria - per me grandiosa! - che tocca corde sommerse e ne tira fuori un suono acutissimo, prepotente, una ferita lancinante e tuttavia catartica.  
Mi trattengo a stento dallo spoiler - lo confesso - faccio fatica a tacere, perciò se siete ritardatari come me, recuperate questo libro e leggetelo al più presto; se lo avete già fatto, non fate i timidi, parliamone subito altrimenti scoppio!!
Chi si aggira oggi, con molto disincanto, nelle aule più o meno tecnologizzate della scuola moderna, non troppo diverse da quelle, senza LIM,  in cui Golding negli anni Cinquanta si cimentava col suo esperimento didattico - oggi lo chiameremmo “educazione alla cittadinanza attiva”- sa che non è difficile imbattersi in ciascuno dei personaggi che animano questo romanzo. C’è il capo carismatico, generoso, coraggioso, prudente, a volte narcisista; c’è il prepotente livoroso; c’è il ragazzo razionale e solitario; ci sono gli irresponsabili; c’è il grassone occhialuto fatto a pezzi dai bulli; i gregari; il branco; amicizie dichiarate, rifiutate e tradite; odi più o meno sotterranei; dichiarazioni di guerra; patti; simboli. L’anarchia sempre in agguato. La classe è davvero una palestra del mondo, miniatura della società con pregi e difetti: i miei alunni ridevano quando lo dicevo, forse non ci credevano abbastanza, non riuscivano a vedersi dall’esterno.
L’isola di Golding è una proiezione che ingigantisce dinamiche quotidiane piuttosto familiari. Fra adulti e bambini. È un tuffo nel pessimismo.
Zoom
Spazio a Piggy, il ragazzo grasso di cui non nessuno sa il nome di battesimo perché inchiodato al suo nomignolo dispregiativo. Spazio ai suoi occhiali. Al buon senso. Alla saccenza. All’asma. Alla logorrea. Al suo essere vittima in pasto ai bulli.
È lui che costruisce il potere di Ralph, il capo, gliene suggerisce gli strumenti (il convegno, la votazione) e persino i simboli (la conchiglia con cui chiamare l’adunata e che garantisce il turno di parola), è lui che lo sostiene nel declino, lo sprona, progetta piani che funzionano perché a differenza di tutti gli altri “sa pensare”. Piggy sa che Ralph è un capo giusto, eletto democraticamente e capace di ascoltare i buoni consigli, di riconoscere gli errori. Se Ralph desse le dimissioni, come vorrebbe fare in un momento di sconforto, Piggy sa che per se stesso non ci sarà più scampo. Perché è l'anello debole del gruppo. E chi è debole, se non c’è un potere giusto, un’autorità legittima, verrà distrutto dalla legge della giungla. Da quello stato di natura che non è certo un paradiso perduto.
Questo l’insegnamento: la legge è nata allo scopo di mettere fine alla barbarie. Anche se ingiusta o imperfetta o poco chiara, essa è una conquista e ci salva. Un monito agli anarchici di ieri e di oggi. Agli incendiari. 








[1] I cento libri che rendono più ricca la nostra vita, Piero Dorfles – Garzanti 2014