martedì 30 settembre 2014

Il desiderio di essere come tutti, recensione sofferta di una lettura a lungo rimandata...

Ho temporeggiato a lungo prima di leggere  "Il desiderio di essere come tutti" (Einuaudi) con cui Francesco Piccolo, il 3 Luglio scorso, ha vinto il Premio Strega.
Sapevo già, per via dell’immancabile clamore mediatico che ruota attorno a tali premiazioni e per gli articoli che avevo letto, che si trattava di un’autobiografia ma anche di un bilancio sullo stato di salute della sinistra italiana negli ultimi anni. Le premesse mi indisponevano.
Le autobiografie mi annoiano, per quel narcisismo che deborda da ogni riga, ma ancor più perché (è un mio limite) nella letteratura cerco sempre un varco verso l’altrove.
La letteratura che non raffina il reale per meglio interpretarlo mi sta stretta, perciò ho un atteggiamento piuttosto tiepido verso le cronache, le biografie, la storia raccontata in bello stile. Per dirla con Antonio Moresco[1], che ho avuto modo di ascoltare nel corso di una presentazione nella mia città: “ Noi non siamo la misura di tutte le cose dentro un orizzonte storico circoscritto”, nella vita dell’uomo c’è una continuità e una radicalità profonda che non si possono costringere in una catena di causa-effetto; nel reale, piuttosto, c’è tanta materia oscura e la letteratura può intercettarla solo a patto di non assumere categorie esclusivamente storiche.
Facciamola breve: quando leggo, amo la finzione.
Poi però mi sono incuriosita. Dal libro di Piccolo numerose esche spuntavano ad allettarmi. Come pure mi allettavano le recensioni positive. E ancor più la sua faccia simpatica. E il titolo, la scritta rossa, che ammicca a un celebre articolo dell'Unità sui funerali di Enrico Berlinguer.

L’esca più subdola, per esempio, giocava la carta della nostalgia. Sapevo che Piccolo aveva iniziato a narrare il suo ingresso nella dimensione pubblica a partire dall’epidemia di colera e dalla diffidenza verso le cozze, passando attraverso i mondiali del 1974, approdando al terremoto in Irpinia del 1980 e affondando negli eventi tragici della nostra storia, come il rapimento Moro o i funerali di Berlinguer: vicende che, sebbene non vissute in prima persona, fanno parte dell’immaginario collettivo delle nostre famiglie e che, in un certo qual modo, appartengono anche a me. Per esempio, alcune delle pagine scritte da Francesco Piccolo avrebbero potuto ben esser scritte dai miei cugini più grandi, suoi coetanei, che tante volte li hanno rievocati con lo stesso trasporto.
Un po’ tutti abbiamo provato quella strana commistione fra pubblico e privato quando gli avvenimenti della storia, rimbalzati attraverso la televisione e i giornali, sono ricaduti nelle nostre vite e nelle nostre esistenze quotidiane (per quanto minime e insignificanti). In nome di ciò, mi sono decisa a leggere l’autobiografia di Piccolo. Per ritrovare quanto di mio ci fosse negli ultimi cinquant’anni di storia repubblicana.

L’incipit
Sono nato in un giorno di inizio estate del 1973, a nove anni.
Fino a quel momento la mia vita , e tutti i fatti che accadevano nel mondo, erano due entità separate, che non potevano incontrarsi in nessun modo. Me ne stavo nella mia casa, nel mio cortile, nella mia città; con i miei genitori, i miei fratelli, i compagni di scuola, i parenti e gli amici – e in un altro pianeta accadevano i fatti che guardavo in televisione. Ogni tanto i grandi ne parlavano, del mondo e dell’Italia in particolare; quindi c’era interesse verso quello che accadeva fuori dalla nostra vita. Ma noi tutti in ogni caso, non c’entravamo niente. E io, ancora meno
L’Infeltrita
Francesco Piccolo dice di non essere nostalgico del tempo passato e conclude dichiarando il suo bisogno di vivere il presente, solo quello. Dichiara inoltre di non voler fuggire in un luogo migliore, sia esso un passato idealizzato e lontano, oppure un altro paese, con una classe dirigente più candida e una popolazione diversa da noi italiani.
La nostalgia, però, è del lettore che si trova immerso nei grandi eventi della cronaca, ampi quadri che facilmente recupera dalla propria memoria e in cui si sente a casa. Eventi dilatati dai media, dalla percezione del singolo, dagli occhi, prima di un bambino, poi di un adolescente che si ritrova a fare i conti con il resto del mondo.

Nel racconto, la dimensione privata si mescola alla dimensione pubblica e in questo trova la sua principale grazia. Il filtro soggettivo ammorbidisce la cronaca, la fa umana, palpitante e perciò meno lineare, meno facile. Pubblico e privato sono qui due categorie problematiche, discusse, intrecciate, che si vorrebbe tenere distinte, ma che sempre restano confuse.
L’autobiografia procede per blocchi, compiuti e autosufficienti. Le diverse parti, tuttavia, sono tenute insieme da una ricorsività che si esprime in richiami, considerazioni, rettifiche e valutazioni che l’autore non cessa di rivolgere al proprio passato, come se i conti con esso non fossero del tutto saldati e il giudizio non fosse mai definitivo. Del resto, non si guarda mai al passato sempre allo stesso modo, ma in maniera diversa a seconda di chi siamo diventati, del presente che viviamo. È la lezione che ricavo da questo libro.
Interessante è anche valutare i due macro-blocchi e i loro titoli: la prima parte “La vita pura: io e Berlinguer”, la seconda parte “La vita impura: io e Berlusconi”.
Da un lato, l’adolescenza scandita dalla scelta emotiva, più che ponderata, di essere comunista (la simpatia per la Germania Est ai mondiali di calcio del 1974 che è simpatia per i deboli, destinati alla sconfitta e tuttavia capaci, per una sola volta, di una vittoria eroica, proprio perché contraria ad ogni pronostico) e la fatica di esserlo del tutto, con coerenza e intransigenza; dall’altro, la vita adulta segnata da una partecipazione alla politica seguendo con diligenza e senza più deragliamenti i passi percorsi dalla sinistra italiana.
Ovviamente, sembrerebbe che il giudizio sia già espresso a chiare lettere: c’è un’epoca felice, buona, incontaminata (Berlinguer) e una perduta, grigia, colpevole (Berlusconi, e prima ancora Craxi). Ci sono i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, i puri e gli impuri, la minoranza che tifa per il bene (perde e sublima la delusione della sconfitta nella consapevolezza di essere dalla parte del giusto) e la maggioranza che sceglie il male (e vince!) Questo mi aspettavo, questo volevo sentirmi dire.
In realtà, Francesco Piccolo chiude le sue memorie con delle considerazioni che ci portano da tutt’altra parte, spiazzandoci.
L’errore più grosso che la sinistra ha compiuto negli ultimi anni, è stato quello di rifiutare in blocco il presente con le sue innegabili brutture, mantenere le distanze dalla società, dalla politica, dalla storia, per rinchiudersi in un Olimpo aureo da cui criticare, disprezzare gli altri (i cattivi, gli ignoranti, i corrotti) con l’arma dell’ironia, del sarcasmo, dell’indignazione a volte virulenta, sempre improduttiva.
Dopo la morte di Berlinguer, naufragato per sempre il compromesso storico, e ancor più dopo che Bertinotti nel 1998, in nome della “purezza”, ha scelto di far cadere il governo Prodi, la sinistra ha deliberatamente scelto di votarsi alla sconfitta pur di non lasciarsi contaminare dal presente; si è fatta reazionaria, chiamandosi fuori dalla politica, fuori dai giochi. E ha offerto il Paese alla parte che l’ha mandato in rovina. Non si può non condividere un’analisi, che resta amara nella sostanza.
Piccolo, nel denunciare i propri difetti e i propri errori di uomo, condanna un’intera cerchia politica, miope e incapace di mettersi in discussione. Egli prende le distanze dal fanatismo, dalla mancanza di compromesso che sfocia nella inanità, dalla presunzione di essere i migliori. E finisce per auto-assolversi, al contrario, proprio per quelle volte in cui ha saputo mettere da parte l’atteggiamento moralista, la durezza, l’intransigenza per abbracciare una superficialità intesa come ingrediente fondamentale per vivere bene, per vivere il proprio tempo senza sensi di colpa, per essere parte di un tutto…. per essere come tutti, appunto. Non migliore, non superiore.
Francesco Piccolo ha una vena affabulatoria tendente alla logorrea, quando racconta gli aneddoti non ha fretta, si sofferma sugli antefatti, indugia sui particolari, conduce il lettore per molte stanze, lungo il filo di un ragionamento che si dispiega con calma senza lascare presagire quando e dove andrà a finire. Ma alla fine convince. La sua auto-indulgenza strappa un perdono (difficile) anche nel lettore, che assolve la parte peggiore di Piccolo riconoscendo in essa i propri difetti e le proprie mancanze. Si può dire che "Il desiderio di essere come tutti" è un romanzo di formazione che ha molto del Bildungsroman classico, alla Wilhem Meister. Francesco Piccolo nel finale appare infatti perfettamente conformato all’ideale borghese dell’equilibrio, della misura, del buon senso. Dopo un cammino tortuoso e doloroso, che passa per l’esperienza del rifiuto, per le lacrime di fronte all’umiliazione di Berlinguer, per la meschinità morale del reportage contro l’italietta in settimana bianca a Ovindoli e per la riprovazione di Bertinotti che fa cadere il governo, Francesco Piccolo mette da parte sofferenza e delusione e sceglie di abbracciare il presente, così com’è. Supera inquietudine e inanità e si dichiara pronto a vivere il suo tempo.

E io? Mi riconosco molto in questa biografia, e soffro un po’. 

Zoom
Trovo esilaranti le pagine sul colera del 1973. Perché l’autore ha dato loro sfumatura epica e tragica, e perciò sanno essere estremamente comiche. Perché della perenne diffidenza verso le cozze, maturata da Francesco Piccolo in virtù di un indimenticabile spavento, ne sa qualcosa la mia famiglia che non ha servito molluschi (né cotti né crudi) per i successivi trent’anni. E non è un’iperbole. Anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo conosciuto da vicino quella strana sensazione che si prova quando la Storia si svolge vicino, ma non del tutto, rendendoci QUASI protagonisti. E riconosco le vicende del terremoto in Irpinia, una tragedia che, appena un po’ più lontano dai luoghi colpiti, fu percepita come un tempo strano di paura sì, ma anche di emozione condivisa (scuole chiuse, vacanze inaspettate, giorni trascorsi in campagna tutti insieme vicini, come in una grande avventura, quasi una festa). La superficialità di Francesco Piccolo mi fa specie, perché di fatto mi appartiene!








[1] Antonio Moresco (Mantova, 30 ottobre 1947) è uno scrittore italiano, autore di opere narrative, teatrali e saggistiche. Nel 2014 per Mondadori, collana Libellule, ha pubblicato “Fiaba d’amore”, nel 2013 “La lucina”.

domenica 28 settembre 2014

Un mare...di libri!

Buona domenica, amici miei e molto più dei buoni libri!

Come promesso nel mio post precedente (Mario Desiati, Foto di classe), vi racconto oggi dello straordinario incontro che sabato 27 Settembre, in occasione della Festa dei Lettori, si è tenuto nell'Auditorium comunale di Martina Franca fra lo scrittore Mario Desiati e gli alunni della scuola Battaglini. 
Penserete forse che "straordinario" sia il solito aggettivo esagerato e sensazionalistico, utilizzato con troppa leggerezza e poco buon senso allo scopo di attirare la vostra attenzione: NO! 
Perché è uno spettacolo che emoziona davvero (e che dovrebbe ripetersi spesso!) vedere centocinquanta ragazzi fra i dodici e i quattordici anni pendere dalle labbra di uno scrittore, mentre questi racconta una storia che ai loro orecchi suona fiabesca e remota; perché né la nostra dirigente né nessuno di noi insegnanti si aspettava che un fiume di alunni si sarebbe precipitato, sotto gli occhi sconcertati e anche un po' atterriti dell'autore, ai piedi del palco per rivolgere domande varie e incalzanti, alcune eleganti, preparate con largo anticipo e appuntate con calligrafia incerta su diari colorati, post-it e pizzini d'ogni sorta, altre spontanee, imbarazzanti, dirette, cavillose, generose; perché è stato bello osservare gli alunni ridere a crepapelle ascoltando gli aneddoti che Mario non ha lesinato e con cui ha ricostruito i tempi d'oro della sua prima adolescenza, quando il sogno di fare lo scrittore sembrava ancora un "piano B", mentre il progetto più urgente e importante era fare il calciatore: e ci credeva, poverino, nonostante un provino ufficiale disastroso narrato adesso con toni apocalittici. 
Mario Desiati, a cavalcioni sul palco dell'auditorium, ha parlato agli alunni nella loro stessa lingua. Fra tutti ha individuato a colpo sicuro la ragazza che, senza tentennamenti, ha raccontato di sé e del suo futuro e l'alunno più vivace, l'originale, il più complicato dell'istituto che, chiamato sul palco e insignito dell'onore del microfono, ha sfoggiato un sorriso grande quanto quella platea che lo acclamava, un sorriso che ha portato, poi, con sé per tutto il resto della giornata. Per l'una e per l'altro sarà, ne sono certa, un'esperienza indimenticabile. E l'assoceranno a un libro. Che forse non volevano leggere, che forse hanno trovato difficile o troppo lungo rispetto agli standard a cui sono abituati, ma che all'improvviso hanno percepito come importante e coinvolgente, capace di traghettarli in una dimensione condivisa dove era possibile sì parlare di sé, ma anche del mondo, degli altri, di quelli come noi e di quelli diversi da noi, dei vicini e dei lontani. 

All'improvviso chi stingeva tra le mani "Mare di zucchero. Due ragazzi e un sogno: la libertà" si è sentito importante e privilegiato. Chi non lo aveva voluto leggere, guardava con occhi avidi i compagni e qualcuno chiedeva a me, se per piacere potevo passargli la mia copia, per un attimo, "per darci un'occhiatina". 
Da lettrice e da prof. gongolavo. E mi dicevo, basta così poco per fare innamorare i ragazzi di un libro! 
"Mare di zucchero" che recensirò prossimamente è la storia di due ragazzini, Luca ed Ervin, una storia che racconta di coraggio e di sogni. Per Ervin il sogno è la libertà, che lo spinge a intraprendere un viaggio quasi epico sulla nave Vlora, su cui si ammassano ventimila persone e se si lancia una mela in aria, non  cade perché non c'è spazio, non c'è vuoto. Per Luca (che ha molto in comune con Mario Desiati) i sogni sono incerti e fumosi, ma la storia di Ervin, il suo coraggio, lo colpiscono al punto da farlo maturare in fretta. Così troverà la forza di volontà necessaria a difendere i suoi talenti e inizierà a lottare per essi.
L'incontro con l'autore si è aperto con l'introduzione curata da due mie colleghe: Anna Grazia Sproniero e Grazia Pinto. La prima ha esposto una breve presentazione del romanzo, per quanti tra noi non l'avevano letto; la seconda ha raccontato di quando, quattordicenne, frequentava le tendopoli che, nelle nostre città di Puglia, ospitavano gli albanesi approdati nei porti di Bari e di Brindisi. Si offrivano loro viveri, vestiti, libri e si stringevano amicizie. Molte di quelle amicizie si sono perse dopo pochi mesi, con i rimpatri, le partenze per altre regioni, o per semplice incuria, quando, terminato lo slancio iniziale di solidarietà, lo stupore per la novità che aveva il sapore della fiaba, la tendopoli era addivenuta un luogo come un altro. E i riflettori della cronaca, TV e giornali, si erano spenti.
Strane coincidenze, intersezioni curiose....io, l'autore, le colleghe organizzatrici avevamo l'età dei nostri alunni quando i fatti narrati nel romanzo ebbero luogo. 
"Perché ha voluto raccontare dello sbarco degli albanesi negli anni Novanta e non degli sbarchi più recenti sulle coste di Lampedusa?" ha chiesto un'alunna con la sua voce pulita, dopo essersi presentata. 
Mario Desiati non ha risposto di getto, ha guardato nel vuoto per qualche secondo e, come in preda a una nostalgia struggente, si è lasciato sfuggire: "Perché io c'ero!" 
Questa storia nasce dalla volontà di approfondire un tema assai caro all'autore, che più volte si è occupato di emigrazione, ma anche dal bisogno di rievocare un'esperienza importante, tirandola fuori dal proprio passato, dalla nostalgia di un tempo in cui la cronaca che d'improvviso era capitombolata nella nostra vita, aveva preso il sapore di un' avventura meravigliosa. Anche io c'ero. Undicenne, al porto, ad occhi spalancati di fronte a quelle navi troppo piccole per una folla numerosa che si agitava e mostrava, con l'indice e il medio, il segno di una vittoria in cui credeva profondamente. E c'ero, in prima media, quando col mio professore di italiano scrivemmo un piccolo copione che aveva come protagonisti i ragazzi di una scuola pugliese e un loro coetaneo albanese in cerca dei suoi genitori. Ancora oggi, a Monopoli, nella mia città, di fronte alla spiaggia di Cala Paradiso, l'enorme spiazzo che ospita giostre e fiere, è a tutti noto col nome di tendopoli, benché le tende siano andate via molti anni fa e gli undicenni di oggi non le abbiamo mai viste e forse non si chiedono nemmeno il senso di questo nome rimasto tenacemente incollato al luogo.  

"Perché ha voluto scrivere un libro per ragazzi?"
Anche questa domanda sembrava mettere a disagio Mario Desiati. Forse desiderava scrollarsi di dosso l'accusa che potesse trattarsi di un'operazione di marketing (i libri per ragazzi si vendono bene!) forse non è mai troppo facile rispondere alle domande che cominciano  a bruciapelo con  "perché". In realtà, ci ha detto, molti suoi romanzi per adulti hanno come protagonisti ragazzi dell'età di Luca ed Ervin. E anche "Mare di zucchero", confessa, in realtà è un romanzo molto più adatto agli adulti che ai ragazzi, benché vi sia uno stile più semplice e immediato. 
L'adolescenza è un tema ricorrente nell'opera di Desiati. Il tempo più ricco e intenso della vita. Il tempo in cui, in un calderone, si mescolano con furia gli ingredienti per la vita che verrà, per l'uomo o la donna che da quelle esperienze nasceranno. 
Desiati ha saputo parlare agli uomini e alle donne di domani che si nascondevano nei centocinquanta ragazzi della mia scuola. I nostri alunni, scalmanati e straordinari. Spero che la lettura e tutto ciò che essa ha generato - domande, curiosità, risa, scherzi, incontri, conoscenza, festa - contribuisca a lasciare in loro un segno ben marcato. E a farne dei lettori poco "scolastici" e molto appassionati. Impertinenti, esigenti, fantasiosi.




giovedì 25 settembre 2014

Mario Desiati #1: Foto di classe.

Eccomi a voi anche oggi.
Il 27 settembre è la festa dei lettori e il Presidio del Libro di Martina Franca (TA), la città in cui lavoro, ha organizzato un incontro tra gli alunni delle scuole medie (lo so, si dovrebbe dire Secondaria di Primo Grado, ma trovo il titolo lungo, asettico e poco simpatico) e Mario Desiati, uno scrittore martinese che ho avuto modo di ascoltare diverse volte e di cui ho letto tutti i romanzi, ad eccezione dell’ultimo: “Mare di zucchero”, appena pubblicato con Mondadori. 
In attesa di colmare questa lacuna, dal momento che sabato parteciperò alla presentazione del libro e probabilmente ne acquisterò una copia, ho deciso di occuparmi, in questi giorni, della recensione di tutti quelli che ho già letto.
Successivamente, vi racconterò dell’incontro con gli studenti,  in un post quanto più è possibile dettagliato e documentato, nella speranza di riuscire a scattare anche alcune fotografie decenti. Confesso, però, che i reportage non sono il mio forte e le cronache puntuali mi annoiano. ...
Alla fine, mi impegnerò nella recensione infeltrita di “Mare di zucchero”, se davvero riuscirò a procurarmelo.


Dedicherò a questo autore uno spazio più ampio del solito.

Desiati racconta un Sud che conosco, di cui mi sento parte, nel bene e nel male.
Il suo vissuto adolescenziale, i paesaggi che fanno da sfondo alle storie, la trama dei ricordi su cui si innestano i racconti intersecano alla perfezione la mia esperienza di trentacinquenne pugliese, liceale negli anni Novanta. I colori, i mezzi toni, gli odori, i tic, i fanatismi, il gergo, le ossessioni e i miti della MIA provincia trovano nella SUA penna espressione potente e lirica.
Quando leggo Mario Desiati non sono quasi mai serena. Mi coinvolge e mi sento in diritto persino di mandarlo a quel paese, come si farebbe con un amico di cui ogni tanto non si condivide il punto di vista, ma da cui non ci si separa volentieri.
Voglio iniziare da un libro anomalo, breve e doloroso: Foto di classe. Sottotitolo: U uagnon se n’asciot (il ragazzo se ne è andato) editori Laterza, collana "contromano", 2009. Regalo (graditissimo) per il mio trentesimo compleanno da parte di un’amica che mi conosceva bene.
Inizio a parlarvi di Desiati partendo da “Foto di classe” perché proprio oggi alcune mie colleghe dicevano di esser state compagne di scuola di Mario ai tempi del liceo e a me piace l’idea che nel romanzo, in fondo, tra pregi, vizi e tanta nostalgia, si racconti (chissà) anche di loro.
Lo so è un atteggiamento provinciale, ma mi stuzzica l’idea di scavare tra le memorie e le emozioni di un autore, sentirlo parte di un universo che davvero conosco e mi piace scoprire, nella finzione del romanzo, la rappresentazione di un reale inopinatamente vicino, accessibile e prossimo. È come se nella grandezza e nella lontananza della dimensione letteraria si aprisse un varco, familiare, riconoscibile, mio, in cui sentirmi a casa.
È come dire: "ehi ci sono anch’io!" "Io queste cose le ho viste, le conosco, le so - come lui, anzi prima di lui."

A libri del genere, anche quando non mi piacciono completamente, sento di appartenere…


L’Infeltrita
Foto di classe è una ricerca sociologica contaminata dalla memoria.
È un racconto che mescola autobiografia e inchiesta, ma l’inchiesta - condotta da Mario Desiati - non è e non vuole essere oggettiva: chi la conduce ne è coinvolto fino al midollo.
Si parte da una foto di classe, liceali brufolosi del 1996, e da una rimpatriata, figlia della nostalgia e della noia, in una villa storica di Martina Franca, luogo d’incontro, ormai mausoleo della gioventù anni Novanta, socialmente divisa, anche negli spazi comuni, a seconda delle scuole d’appartenenza: l’Olimpo dei liceali nella parte alta, le Malebolge dei tecnici nei pressi di una Rotonda, più in basso.
Da un incipit che ricorda il film di Verdone, Compagni di scuola, si vira dolcemente verso altri lidi, in una dimensione più generale, ma non meno intensa e partecipata.
Dei venti ragazzi ritratti in foto, solo cinque sono rimasti a Martina, nella provincia lirica struggente bellissima, ma spesso chiusa mortifera castrante. Gli altri sono partiti, s nann sciot, se ne sono andati, e Mario Desiati decide di mettersi sulle loro tracce per scandagliare le ragioni di una scelta (obbligatoria? Condizionata? Casuale? Figlia dei tempi?) che è anche la propria.
Quasi un’intera generazione, quella dei trentenni di oggi, ha lasciato la Puglia, il Sud, senza neppure rendersene conto, senza nemmeno sentirsi emigrata, ma solo fuorisede. Il fuorisede è lo studente che si trasferisce nella città universitaria dove studia, ma che torna a casa, dalla sua famiglia, molto spesso: nel fine settimana, oppure ogni mese, o almeno d’estate. La migrazione del fuorisede è provvisoria, non viene percepita come definitiva, anche se poi, nei fatti, quasi sempre lo diventa. Se ne vanno, oggi, sopratutto quelli che hanno studiato.

La precarietà dei trentenni che sono partiti si misura in un’identità sospesa: essi hanno un piede che affonda nel Sud (gli odori, i cibi, la geografia emotiva dei luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza, ma anche le etichette crudeli che si affibbiano a ciascuno e da cui non si scappa neppure da adulti) e un piede lanciato verso il Nord (il lavoro, la libertà, la solitudine).
Non sono e non si sentono veri emigrati, al massimo trasferiti. A Natale tornano a casa e dopo l’Epifania ripartono carichi di conserve e provviste d’ogni sorta. Eppure non appartengono più al proprio paese di cui, d’improvviso, scoprono vizi e smagliature e dal quale non vengono più riconosciuti; ma nemmeno appartengono alla città che li ospita, che dà loro lavoro e rinascita, perché, in fondo, questa città resta estranea e priva di luoghi emotivamente rilevanti, che scandiscono la memoria personale.
L’inchiesta è un’altalena fra attaccamento alla terra d’origine e rifiuto della chiusura d’orizzonti; Desiati ci pone di fronte a una carrellata di storie, di uomini e donne che hanno sperimentato il disincanto. Alcuni non hanno mai superato la condizione di adolescenti, non si sono allontanati da ciò che erano nella foto di classe, altri sono cresciuti in fretta. La nostalgia cede volentieri il passo a una amara consapevolezza del presente e compromette la spensieratezza del passato, mantenendone piuttosto i rancori, le rabbie, le ingiustizie.

La bellezza della penna di Desiati spicca negli squarci lirici che si aprono qui e là e che raccontano la mia Puglia con un afflato accorato e commovente. Percorriamo le strade mortifere del Siderurgico, per le periferie di Taranto, quartiere Tamburi, Paolo VI, dove la fabbrica più grande del Mediterraneo spalanca le sue viscere pregne di quarzite e di calcite, e si confonde con le antiche vestigia della Magna Grecia.

“Ho lasciato Taranto perché qui non c’era più vita, ma soprattutto non c’era più rispetto della morte”

Di Massafra, cittadina ai piedi dell’Italsider, dal cielo striato di rosa, si legge:

Massafra è un luogo unico. Assomiglia a Matera ma con ancora una sua naturale tensione all’abisso. Soprattutto in un punto particolare dove la gravina si apre in uno squarcio profondo, angosciante. Sopra ci passa un ponte metallico, che sembra finto, sospeso su una cavità non solo spaziale, anche temporale, esistenziale. Su quella crepa di pietra, depressa, aguzza, apparentemente inesauribile, dimentichi il mondo e ti viene voglia di precipitare, volarci dentro. Qualcuno ci è volato davvero dentro. Senza metafore e senza retorica. Nei racconti dei ragazzi di Massafra si sente spesso la storia di qualcuno che ha voluto farla finita e si è lanciato nella voragine”

Disperazione e bellezza. Desiati ha sempre la capacità di cogliere il tragico della nostra terra e degli uomini che la abitano.

Dalla terrazza di Piazza Santi Medici vedi il Castello. Poi dietro c’è l’orizzonte contaminato dalle strisce di fumo. C’è sempre quest’aria con il cielo riempito di una pellicola rosata. È un rosa tramonto, un tramonto perenne che avvolge i paesi immediatamente attorno alla grande fabbrica”

La pietas verso i luoghi, la terra, la Puglia, il Mezzogiorno viene offuscata dall’amarezza, da una denuncia doverosa verso il sistema che non sa fermare la lenta emorragia delle sue forze migliori, che non apre varchi di speranza, che non fa della sua indiscutibile bellezza uno scudo capace di proteggere i suoi figli dalle brutture sociali e dalla mancanza di prospettive. E se nel finale l’autore ci lascia con una promessa, con l’impegno a rimpinguare le fila di chi resta, di chi non parte, la sensazione di fondo con cui si chiude questa foto di classe ha il sentore oppressivo di uno scirocco pesante, l’aria densa di quarzite del Siderurgico che sembra gomma bruciata.
La storia di Mario Desiati, che ha lasciato Martina Franca e che vive e lavora a Roma come scrittore ormai affermato, qui manca. I suoi ricordi costruiscono e deformano la galleria dei personaggi intervistati, ma sarebbe stato interessante leggere della sua personale storia di emigrato-trasferito-fuorisede, capire se oggi la nostalgia o la distanza prevale. Distanza non solo fisica, ma anche culturale, sociale,  esistenziale.


mercoledì 24 settembre 2014

Vanitas semi-seria di una lettrice impertinente

Buon pomeriggio, carissimi!
Lo confesso, ho sempre avuto una passione un po' macabra per la rappresentazione della Vanitas, un soggetto artistico che trovo grottesco più che lugubre, così di cattivo gusto da strapparmi il sorriso, soprattutto se al mio fianco c'è qualcuno che non capisce, non apprezza, si spaventa.
E lo so che anche molti di voi non approveranno, che sarebbe bello presentare sempre i propri libri in acquarelli di foglie fiori fronde e uccelli, fra gattini, candele e batuffoli, ma oggi non mi va di fare la graziosa, perciò vi beccate una Vanitas semi-seria di lettrice impertinente. Una Vanitas infeltrita e vespertina per mostrarvi i miei ultimi acquisti, le mie prossime letture.
Vanitas semiseria di lettrice impertinente. Ultimi acquisti e prossime letture.
Nell'iconografia tradizionale della Vanitas, il topos del tempo che fugge non è un invito mondano e spensierato a cogliere l'attimo (o la rosa, per i più maliziosi...), ma un querulo MEMENTO, ossia un imperativo da jettatori patentati, al punto che ricorrere a gesti scaramantici, ancorché poco urbani, sembra d'uopo: quindi fatelo pure, non vi vedo!
La Vanitas si presenta come la rappresentazione di un'accozzaglia di oggetti destinati - diciamolo con elegante perifrasi - "a passare": specchi, clessidre, fiori che stanno per appassire, mele con segni quasi impercettibili di marcescenza, strumenti musicali, fogli sparsi e il teschio, oggetto tra gli oggetti, beffardo col suo ghigno, suo malgrado.
Perché, se è vero che sic transit gloria mundi, io me ne sono sempre fatta una ragione: sono caduche le nostre passioni, la nostra fama terrena, la gloria che cerchiamo. Vane le nostre vanità, appunto, Blog compreso, con buona pace dell'Infeltrita che ogni tanto gioca sporco di narcisismo e vi ammorba con un po' di spam. 
Adriaen Van Utrecht, Vanitas 1642
















Bando alle ciance, ancorché artistiche!
Vi presento i romanzi secondo l'ordine di lettura che mi sono data.

Il desiderio di essere come tutti di Francesco Piccolo, vincitore del Premio Strega 2014, editore Einaudi. Romanzo autobiografico che racconta degli ultimi cinquant'anni di storia, dell'adesione emotiva e non razionale al partito comunista da parte dell'autore, delle tappe che hanno portato la sinistra italiana a una crisi identitaria, dell'intreccio tra dimensione pubblica e privata nell'era berlusconiana. Le ragioni dell'acquisto stanno nella volontà di sentirmi raccontare una storia che, in parte, anch'io ho vissuto, che tante altre volte ho già sentito raccontare, ma da altri testimoni, da altri punti di vista. Confesso di aver indugiato a lungo prima di decidermi a comprarlo, per via di quel desiderio di fuga dalla realtà che sempre mi aspetto dalla letteratura e che mi rende pigra di fronte alle biografie e alle autobiografie.

L'incolore Tazaki Tsukuru e i suoi
anni di pellegrinaggio di Murakami Haruki, editore Einanudi. Ho già letto diverse recensioni e quasi tutte riferiscono delusione. Molti fan di Murakami manifestano un umore piuttosto tiepido verso romanzo. Nessun fuoco d'artificio come per l'uscita di 1Q84. I temi trattati sono i soliti a cui il Nostro ci ha abituato, temi che hanno perduto, col tempo, un po' di freschezza: la solitudine, il rifiuto, l'inspiegabile, una cornice blandamente surreale. Ho comprato il libro perché voglio farmene un'idea mia e perché, in fondo, non sono ancora del tutto stanca di questo autore, capace di strapparmi al reale e di scaraventarmi, in malo modo, in universi impensabili e bislacchi. E poi trovo il titolo accattivante. 


Il cardellino di Donna Tratt, editore Rizzoli. Questo è il mio reading-challange 2014. Novecento pagine da ultimare entro la fine dell'anno, da leggere contemporaneamente ad altri libri (quelli, per intenderci, che posso infilare in borsa e portare in giro senza rischiare lussazioni). Novecento pagine che, alla fine, dovrò INFELTRIRE in 900 parole. Che cosa ne pensate? Si può considerare una bella sfida? Anche in questo caso, ho letto già diverse recensioni: le prime piuttosto negative, le più recenti del tutto positive. Ho notato, infatti, che si recensisce secondo impressioni di massa: adesso è in voga la rivalutazione dell'opera che, invece, al momento della sua uscita aveva suscitato riprovazione e diffidenza, soprattutto a causa della misura extra-large di cui, noi lettori 2.0, non siamo più estimatori. 


My wife, la moglie di tutti.
Una storia vera di Sis Lav, editore MODU MODU. Ultimo cimelio dell'estate appena trascorsa, acquisto fatto in spiaggia da un venditore ambulante molto simpatico. Sto tardando a leggerlo, benché sia breve, perché il suo incipit non mi ha entusiasmato. Ho deciso, quindi, di tenerlo come riserva per i giorni in cui la mia cartella da lavoro sarà particolarmente pesante e dovrò mettere in campo strategie per risparmiare sui chilogrammi, senza compromettere il bisogno fisiologico di leggere durante i gli spostamenti da una città all'altra.  




I libri nuovi mi mettono addosso l'argento vivo. La carica di entusiasmo e di impazienza che manifesto maneggiandoli, annusandoli, guardandoli, sfogliandoli, fotografandoli, impilandoli in modo che possa abbracciarli con un solo colpo d'occhio, mi fa tornare la bambina che contempla i regali di Natale e gode della loro abbondanza senza chiedersi se saranno belli o brutti, se deluderanno le aspettative o saranno fonte di stupore. I libri nuovi sono un regalo che mi faccio, con generosità, e che, intimamente, sento di meritare....

domenica 21 settembre 2014

Giovanni Raboni, della poesia che fa bene e della pseudoprosa.

"…se penso
a chi è la gente ricca adesso, a cosa
gli costa il capitale
mi convinco che tutto si complica, anche il male "

Le strade che mi conducono ad amare i versi di un poeta sono sempre piuttosto eccentriche. A volte è l’aprirsi casuale di un varco che mi spinge a oltrepassarne la soglia per entrare in una poetica che, diversamente, senza quell’incontro accidentale, mi sarebbe rimasta indifferente o solo incasellata in categorie letterarie scolasticamente recepite.
Sono arrivata a Giovanni Raboni partendo dai versi che ho riportato in epigrafe. Versi estrapolati malamente, senza rispetto per la metrica, tratti dal componimento “Una volta”, della raccolta Le case della Vetra (1955-1965). Nel fluire della poesia, della sua unica strofa, mentre li leggevo a bassa voce, con dizione sporca, nella solitudine della casa, in cerca della compagnia discreta che solo i poeti sanno dare, si è fissato nella mente, d’improvviso, questo passaggio, strappando al mio volto un sussulto appena percettibile, un rapido dilatarsi delle pupille, il tendersi dei muscoli occipitali e un respiro appena più profondo.
La musicalità, il ritmo degli enjambement, ma soprattutto la rima, liquida e distesa, unica nell’intero componimento, hanno avuto la forza di fermare, in un lampo, un concetto che, mi è sembrato, fotografare un’epoca. Il cambiamento nel suo incipit.
E ho pensato alla forza della poesia, alle parole che possono con il loro peso semplificare la complessità senza svilirla, raccontarla sublimandola e non abbassandola, analizzarla icasticamente e con pulizia. Rendere bello un tema poco lirico, anzi arido, se non deprimente. Il capitale.

Torniamo al concetto di partenza. È la profezia di Tomasi di Lampedusa che si avvera: tramontata l’epoca dei gattopardi è arrivata l’epoca degli sciacalli. E Milano, protagonista di molta poesia del Raboni, ne è lo scenario perfetto: Milano capitale di economia politica che applica la legge della domanda e dell’offerta sui salari, sulle teste degli operai e forma le nuove generazioni di borghesi rampanti, coprendone “ i santi moti del cuore”, perché siano uomini lucidi e spassionati coi colletti rotondi e inamidati  “…a diciotto, diciannove anni e nessuno/ che ci dicesse sul muso “stronzi”, il nostro modo/ di rivoltarci era quello, il conformismo, / la pacatezza, il freddo disgusto/ per le intemperanze giovanili; aver schifo della rivoluzione…” (Lezioni di economia politica, da Le case della Vetra). Il mondo dell’economia, la Borsa, le multinazionali, i “vaghi scandali” trovano qui spazio poetico (ma come ci riesce?) e critica: siamo nei primi anni Sessanta e la crescita modifica la percezione dei luoghi, le relazioni, i valori. La frenesia che sottende il vuoto. Milano è agli occhi dei viaggiatori “una gabbia di matti, dove/ non cadrebbe uno spillo/ anche se poi, a scoppiare è proprio il vuoto”. (Proprio il vuoto, da Le case della Vetra).
Ritrovo in questa raccolta poetica la genesi di quella cultura grigia, sotto la cui egida la mia generazione è nata, spesso priva di anticorpi, non più capace di discuterla o anche solo di rilevarla. Esempio: “Realtà / è lo squallore dei viaggi, la carriera mal digerita, / le raccomandazioni che non servono a niente/ o arrivano in ritardo; è avere invece / dello stagno grigio e mattutino, pieno / di pigra cacciagione, / questo sporco catino dove mi lavo le mani” (Pozio P., da Le case della Vetra). In questi versi, che volli sottolineare e che spesso mi trovo a rileggere o a citare, ritrovo il manifesto di un pensiero dominante, annidato dappertutto: “ …E così niente abbracci/ al baritono negro, allo scienziato/ ebreo per parte di madre, niente fiori/ sulle fosse o rimproveri sgarbati/ agli aguzzini. Quando più te l’aspetti/ torna a tirare un’aria di cappucci” (19**) . L’aria di cappucci è tornata, io temo, o non se n’è mai andata.

Il Raboni che preferisco è questo, dunque. Il primo Raboni, direbbero gli studiosi, quello de Le Case della Vetra. Senza metrica tradizionale, a poche rime, capace di incursioni in un lessico poco lirico che il ritmo rende, suo malgrado, fortemente poetico e pregnante. Giovanni Giudici, nel 1993, in un articolo apparso su l’Unità del 5 novembre, dirà che la sua è una fuga dal luogo comune, dal poetico ad ogni costo, una pseudoprosa che ci rimanda alla “linea lombarda” del Parini, il quale, come sappiamo, non disdegnava di usare, nei suoi versi, vocaboli attinti dalla meschinità della tecnica e della scienza. Un compromesso con la materia, con la storia, col pensiero. E tanto spazio all’ironia.
Il Raboni maturo è, tuttavia, il poeta della “forma chiusa”, quello che nelle ultime raccolte recupera la tradizione e fa rivivere i sonetti. Alle soglie del Duemila ritrova, infatti, nella madre di tutte le tradizioni poetiche, uno strumento con cui dare unità poetica ai temi di tutta la sua vita: l’impegno, l’angoscia privata, la meditazione sulla morte, la pietà dei corpi, l’ironia a dispetto di ogni dramma.“«Orribile a dirsi, in un certo modo/ io sono comunista» - un talismano/ passato, perduto di mano in mano,/ cruenta, arrugginita reliquia, chiodo/ torto nel muro della storia…” (da Quare tristis, 1998).

A dieci anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 16 settembre 2004, Giovanni Raboni è stato protagonista della giusta commemorazione che il mondo della cultura rivolge ai suoi benemeriti, servendosi, oggi, sempre più spesso degli strumenti messi a disposizione dalla Rete. E così, nei giorni scorsi, sui principali Social Network che frequento mi sono imbattuta in frequenti omaggi al poeta e ho avuto modo di leggere articoli disparati, quasi tutti molto interessanti. Alcuni sottolineavano la scelta, antinovecentesca, di tornare alla metrica chiusa, altri rievocavano la sua amicizia con Vittorio Sereni, altri ancora ne presentavano la biografia o riproponevano il testo integrale delle sue ultime interviste in cui egli rifletteva, con rammarico, su quanto poco spazio l’editoria moderna lasci alla poesia e ai poeti.
Tutti, volendo proporre un testo, a titolo esemplificativo, hanno scelto lo stesso componimento per cui mi consigliarono, sei anni fa, la raccolta Tutte le poesie di Giovanni Raboni dal 1951 al 1998, edito da Garzanti per la collana Gli elefanti: “Io che ho sempre adorato le spoglie del futuro…” da Canzonette mortali. Un componimento che parla d’amore e che voglio riportare anch’io, in parte, sebbene non sia ciò che amo di più questo autore.
Io che adoro le spoglie del futuro
e solo del futuro, di nient’altro
ho qualche nostalgia
ricordo adesso con spavento
quando alle mie carezze smetterai di bagnarti,
quando dal mio piacere
sarai divisa e forse per bellezza
d’esser tanto amata o per dolcezza
d’avermi amato
farai finta lo stesso di godere.”
Giovanni Raboni e Patrizia Valduga
Canzonette mortali è una raccolta dei primissimi anni Ottanta, dedicata alla poetessa Patrizia Valduga, in cui l’amore è colto nella dimensione erotica, sensuale. Non si tratta di canzonette morali, ma “mortali” e perciò tutte percorse dalla dimensione struggente del presente che, con la sua pienezza, dà nostalgia anzi tempo, tanto è breve e destinato a sfuggire, a passare. Il presente, come l’amore, è colto nella sua dimensione caduca, appunto… “mortale”. Il poeta vi si aggrappa con furia perché l’ossessione della vecchiaia, il contrasto con la gioventù della donna lo angoscia: “ Nel bar pieno di gente/ giovane che saluti e che mi guarda/ come un intruso il tuo bisbiglio/ docile e spudorato/ - vuoi che…? – a farmi invisibile e beato.// No, non ne ho avute mille e tre – nemmeno/ seicento e quaranta, o novantuna. / E tu quanti? Di colpo lunga o corta/ che sia la lista, il cuore s’accartoccia,/ fa male. Eppure so che non importa” così lo ritroviamo in preda alla fragilità che è propria di chi cede al sentimento, senza difese. “Una ghirlanda, un foglio per ciascuno/ degli anni che volevi dimostrare, / che non avevi ancora,/ che hai compiuti con me”.
“Raboni ha scritto alcune delle poesie d’amore più belle di questi anni” scrisse Attilio Bertolucci e io sono contenta di averle trovate e lette.

Cari amici, spero che questo tuffo nella poesia non vi abbia disorientato. Che si sia aperto un varco anche in voi. Se così è stato, vi lascio il link del sito ufficiale del poeta dove potrete ascoltare la bellezza di alcuni suoi versi dalla sua stessa voce: http://www.giovanniraboni.it/Default.aspx  





venerdì 19 settembre 2014

Sondaggio #3: risultati. Se in autunno il grande romanzo russo....

Carissimi, 
qualche giorno fa si è chiuso il sondaggio "IMPRESSIONI DI SETTEMBRE" (VAI) con cui l'Infeltrita vi invitava a scegliere un libro che vi traghettasse con dolcezza verso l'autunno, consolandovi e coccolandovi. 
Ammetto che la partecipazione non è stata molto alta - e dire che ci avevo messo impegno, poesia e grinta! - tuttavia il risultato è chiaro e netto: VINCE il grande romanzo russo! Vince perché mastodontico, profondo, divertente, completo. Atto a rapirci totalmente e a cancellare residue malinconie da rientro.
Al primo posto si conferma Guerra e pace, grandioso affresco dell'età napoleonica e madre di tante storie e di personaggi indimenticabili: Pierre magnanimo, romantica Nataša, Andrej orgoglioso e millanta a seguire, tali da offuscare persino Napoleone in persona, ehm, in persona...ggio!
Secondi, a pari merito, Delitto e Castigo e Il Maestro e Margherita. Insomma, d'autunno rispolverare la letteratura russa ci piace un sacco!
Armatevi di matita per sottolineare, di pazienza (se siete lettori voraci e abituati a ritmi serrati), di silenzio, regalatevi qualche ora di riposo, una poltrona o un letto, l'odore della carta, un po' di pigrizia, e via! 
L'invito al viaggio, per chi non l'avesse ancora intrapreso, è bell'e servito. 
Che vogliate partecipare al febbrile mondo dei bivacchi e degli eserciti o che preferiate aggirarvi in preda al tormento e all'angoscia per le strade di Pietroburgo, che vi stuzzichi l'idea di scortare Satana/Woland e la sua cricca strampalata di aiutanti per creare scompiglio in una grigia Mosca sovietica o decidiate di fermarvi nel salotto di Anna Pavlovna a spettegolare in raffinato francese, preparatevi alla dipendenza da libro. Perché da libri così ci si distacca controvoglia. Sono mondi a sé stanti, perfetti e complessi. L'ultima pagina  non è solo un epilogo, ma un cerchio che si chiude e un universo che finisce. 

E ora ASSAGGI assortiti!

"Ivan emise un gemito, guardò dinanzi a sé e vide l'odioso straniero. Si trovava già vicino all'uscita di vicolo Patriaršie, e per di più non era solo. Il più che ambiguo maestro di cappella aveva fatto in tempo a raggiungerlo. Ma non era ancora tutto. Il terzo della compagnia era un gatto spuntato non si sa da dove, grasso come un maiale, nero come la fuliggine o come una cornacchia, e con audaci baffetti da cavalleggero. Il terzetto s'avviò lungo i Patriaršie, e il gatto si mise a camminare sulle zampe di dietro" Il Maestro e Margherita, Michail Bulgakov - traduzione di Maria Serena Prina

"A proposito, egli era assai grazioso d'aspetto, aveva bellissimi occhi scuri, capelli castani, una statura superiore alla media, era sottile e svelto. Ma presto cadde in una profonda meditazione, anzi per meglio dire, come uno stato di smemoratezza, e proseguì senza badare a ciò che lo circondava, senza avere neppure la voglia di badarci. Di tanto in tanto borbottava qualcosa fra sé, per quell'abitudine ai monologhi che egli stesso s'era riconosciuta poco prima. In quel momento aveva coscienza che i suoi pensieri a volte si confondevano e che egli era molto debole, poiché da due giorni non aveva mangiato quasi nulla." Delitto e castigo, Fëdor Dostoevskij - traduzione di Vittoria De Gavardo-Carafa.

"Pierre, con le spalle sollevate e la bocca spalancata, ascoltava quel che gli diceva  Mària Dmìtrievna e non credeva ai suoi orecchi. La fidanzata del principe Andréi, così fortemente amata, quella Nataša Rostòv prima così cara, barattare Bolkonski con quell'imbecille di Anatole, già ammogliato (Pierre conosceva il segreto del suo matrimonio), e innamorarsene tanto da consentire di fuggir con lui? Questo, Pierre non lo poteva capire, né se lo poteva immaginare.
La gentile impressione fattagli da Nataša, che egli conosceva dall'infanzia, non si poteva associare nell'anima sua con quella nuova immagine della sua bassezza, stupidità e crudeltà. Egli si ricordò di sua moglie. "Sono tutte uguali", disse a se stesso, pensando che non a lui solo era toccata la triste sorte di essere legato a una donna ignobile[...] Non sapeva che l'anima di Nataša era colma di disperazione, di vergogna, di avvilimento e che ella non aveva colpa se il suo volto esprimeva senza intenzione una fredda e severa dignità" Guerra e pace, Lev Tolstoj - traduzione di Alfredo Polledro
Ritratto di principessa russa in abito bianco
e scialle rosso




mercoledì 17 settembre 2014

Romanzo tentacolare. L'armata dei sonnambuli di Wu Ming.

Finalmente oggi vi parlo di Wu Ming e de L’armata dei sonnambuli.
Un romanzo grande e avviluppante, per chiudere l’estate in bellezza. E cioè con un buon libro e un ricordo positivo.
Vi parlerò di un romanzo a più voci, di un intreccio avvincente e di quella fanta-storia (o storia infiorettata o storia maggiorata) che è il romanzo storico, qui arricchito da un surrealismo fosco e da un’ironia di fondo, cattiva e tragica, in cui io - lettrice priva di buona fede - non posso che rintracciare allusioni e strali verso un’attualità non meno caotica, illusa e disperata.
La curiosità con cui mi sono avvicinata a questo libro accoglieva diverse motivazioni.
L’autore è un collettivo di scrittori: mi domandavo come facessero a disciplinarsi, a dividere il lavoro, ad assicurare unità al racconto.
La storia è ambientata nel periodo del Terrore. Un’epoca così convulsa da rappresentare da sempre, l’autentico spauracchio (terrore, ma con la lettera minuscola!) di molti studenti di storia moderna.
La copertina riproduce la maschera di Scaramouche. Io l’associavo al medico della peste, la cui lunga protesi sul naso serviva a tenerlo lontano dal contagio. La stessa immagine mi riportava contemporaneamente alle cupe maschere di Kubrick, in Eyes Wide Shut. Cercavo un nesso fra queste tre suggestioni e penso di averlo trovato.
Mi sono tuffata senza tema nelle 796 pagine e adesso che le ho finite, la nostalgia della bella stagione si mescola a una nostalgia altrettanto acuta per la storia di Marie Noziére, di Leo Modonnet, del Cavaliere d’Yvers, del magnanimo d’Amblanc e per la folla di Parigi, il foborgo, il manicomio, i boschi cupi dell’Alvernia… fantasmi da romanzo - che nessuna storiografia ufficiale ammetterebbe. Essi trasportano il lettore in lidi lontani, ma fra temi, accidenti, corsi e ricorsi decisamente attuali.
Quanta, ma quanta carne sul fuoco!!
Wu Ming - L'armata dei sonnambuli
Einaudi stile libero BIG 
Incipit
Adunchi come becchi di rapaci, arrossati dal gelo del mattino, bitorzoluti e tumefatti dal bere. Schiacciati da un colpo di piatto ricevuto servendo la patria o celebrando il dio Bacco. Storti da un pugno ben piazzato in una rissa tra cani che si contendono un osso, una moneta o la fessura d’una donna. Mozzati dal fendente di un creditore o di un assassino maldestro. Larghi e rubizzi, con narici enormi e cavernose. […  ]
I nasi del popolo lo disgustavano. Grondanti per il freddo, coperti di nei e verruche, quegli organi deformi ricordavano le parti anatomiche di bestie selvagge, benché a un livello più basso della Creazione, buoni soltanto per annusare i miasmi dei bassifondi
L’Infeltrita
Nasi - maschere - peste. La rivoluzione è vista come una mascherata grottesca, una pestilenza di cui si teme il contagio. L’ossessione per i nasi, da parte del personaggio che incarna il potere reazionario, esprime con chiarezza timore di contaminazione e di imbastardimento. Registrare miasmi e puzze in una folla scomposta è espressione di massimo disprezzo. Lunghissimo per contrappasso sarà il naso di Scaramouche, l’Ammazzaincredibili, eroe che incarna la folla, il popolo, la rivolta.
L’Ouverture del romanzo è di grande e macabra teatralità. Da cinque punti di vista differenti vediamo rotolare testa di Luigi Capeto, re di Francia, il 21 gennaio 1793, meglio noto come Luigi XVI. Il  tempo della storia copre un arco temporale che si allunga sino al 1795. Ricostruisce le fasi più convulse della rivoluzione dalla Convenzione al Termidoro.
La folla di Parigi, che chiede pane e uguaglianza, è un’idra le cui cento teste si divoreranno scambievolmente, perdendo tutto quello che sono riuscite a ottenere e senza raggiungere quanto avevano sperato.
La rivoluzione si fa controrivoluzione in un batter di ciglia, e questa è la Storia: il Romanzo apre varchi e strappi nel suo tessuto. E lì ci mette i propri fantasmi, figure che non appartengono all’asse del vero, che nel reale scorrere dei secoli sono state poco più che comparse, o semplicemente….non sono state!
Cinque voci: il disprezzo dei monarchici che si nascondono nella folla e preparano un complotto oscuro; la ferocia esaltata della folla belluina; la curiosità della popolana Marie Noziére e di suo figlio; l’allegra copula di due attori da strapazzo, Scaramouche e Colombina, in un androne ai margini della folla in visibilio; la calma pacata di Orphée D’Amblanc, medico mesmerista, che non rinuncia al dovere delle sue cure e al piacere di dar sollievo all’asma della bella signora Girard.
Al centro, Madama Ghigliottina, protagonista dell’epoca, proiezione di furori e di un contraddittorio senso di giustizia, meccanismo incendiario destinato a incepparsi per uso scriteriato e progressivamente banalizzato.
I cinque punti di vista saranno mantenuti per tutto il romanzo e porgeranno altrettanti fili narrativi, all’inizio lontanissimi, ma poi destinati a intrecciarsi nelle convulse pagine finali, dove buoni e cattivi si fronteggiano scopertamente.
Il romanzo ha il suo punto di forza proprio nella pluralità delle voci, nel continuo alternarsi di prospettive che inquadrano la storia da lati diversi consentendo al lettore una visione globale e relativa al contempo.
Sprezzante e meschina, la voce del nobile complottista; volgare e oscena quella della plebe, a volte feroce e spietata, a volte stolta, spesso illusa; vuota e retorica la voce dell’attore fanfarone; moderna e tragica quella di Marie, donna volutamente sola, che reclama diritti, che agisce politicamente in un mondo ancora molto maschile.
Il narratore onnisciente, di manzoniana memoria, si rompe, si frantuma in tante tessere che il lettore deve ricostruire, ma il mosaico alla fine è perfetto. La struttura è solida, tiene sino alla fine quando il ritmo narrativo si fa incalzante ed è davvero difficile interrompere la lettura: perché la storia ufficiale la conosciamo tutti, ma dentro di noi speriamo nella forza plasmatrice della letteratura, nella sua capacità di sublimare, di creare grandezza dove c’è stata marginalità, di darci una vittoria dove, innegabilmente, si è palesata una sconfitta….
Il romanzo vero e proprio si interrompe nella conclusione dell’atto quarto, perché nell’atto quinto “Come va a finire” vengono presentate le fonti, quelle che hanno permesso la costruzione dell’intreccio, l’individuazione dei personaggi e degli scenari. Qui incontriamo la Storia ufficiale, un po’ più grigia, non meno complessa.
Perché leggerlo?
Molti motivi possono condurre ad apprezzare questo romanzo, che quindi mi sento di consigliare a un pubblico vasto e variegato.

Lo si può leggere, per esempio, privilegiando il filone politico. Il teatro della rivoluzione appare di un’attualità sconcertante e dolorosa; benché sia sporco di sangue e risonante delle più nobili dichiarazioni, visto dall’esterno e con occhio critico, esso appare più simile alla farsa, uno spettacolo che si fa progressivamente grottesco e vuoto.
Lo si può leggere inseguendo un eroe che si aggira mascherato. Scaramouche, il lungo naso, un bastone micidiale come arma e corde e funi per lanciarsi fra i tetti come un supereroe da “foborgo” che nella rivoluzione cerca solo un grande palcoscenico dove risarcire l’ego, schiaffeggiato dalla malasorte (e da un talento discutibile) che non gli ha permesso di emergere come attore.
Lo si può leggere se si ama il gotico, i toni foschi, il mistero, l’orrido, inseguendo il dottore D’Amblanc nell’oscura regione dell’Alvernia, dove fenomeni di licantropia e possessioni attestano la presenza di un potere malvagio che plasma menti ingenue per perseguire un piano reazionario e micidiale.
Lo si può leggere per la riflessione sui temi della psiche, del rapporto fra medico-paziente, analista-analizzato. Il bene e il male si contendono il metodo para-scientifico dell’ipnosi e del transfert. Usato  come cura dal buon D’Amblanc, ma come esercizio di potere dallo spregiudicato Cavaliere D’Yvres. Così, l’antro di Bicêtre, ricovero per menti alienate, è un luogo conteso tra chi tenta di offrire reale sollievo al male e chi si serve dell’ipnosi per sperimentare il proprio potere. Buona e cattiva scienza si fronteggiano in un topos classico, qui trattato con originalità.
Lo si può leggere in una prospettiva “di genere”, storia di donne che rivendicano diritti, che agiscono politicamente, che finiscono schiacciate non tanto dal maschilismo dominante, quanto dalla mancata  solidarietà fra loro, dal conformismo più forte d’ogni rivolta.
Lo si può leggere per tutti i motivi elencati finora, strato a strato, lasciandosi abbracciare da un romanzo totale e tentacolare. Romanzo di romanzi eppure unitario e solido.

Zoom
Gli spunti per riflessioni sull’attualità sono troppi. Non li elenco tutti, sebbene, con diligenza, abbia sottolineato, passo dopo passo, tutto ciò che metteva in moto riflessioni e confronti. Il romanzo tratteggia uno scenario apocalittico, lo trovo (fuor di letteratura, fuori dalla invenzione e dal mascheramento) specchio attendibilissimo del nostro tempo e delle sue più grame derive.
Nella ferocia cieca e spesso ottusa della folla, incapace di discernimento, sensibile solo alle ragioni della pancia, scettica di fronte alla legge e di fatto manovrabile, pericolosa per sé e per gli altri, risiede la vera sconfitta, il fallimento della rivoluzione. Nell’istinto senza testa, senza ragione. Nella politica che non sa dialogare, ma solo epurare. Nella giustizia sommaria.
L’armata dei sonnambuli, che dà nome al romanzo, è un esercito di uomini plagiati dal Cavaliere di cui eseguono, a distanza, la volontà senza badare al dolore fisico, all’istinto di  sopravvivenza. Automi senza sguardo, senza pensieri, senza anima. Il Cavaliere pesca nel vivaio della Gioventù Dorata - non nobile, non ricca, non raffinata, ma pronta a tutto pur di esserlo. Scherani senza scrupoli, imbellettati, privi di volontà propria.
Che dire? Di folle cieche e di sonnambuli sono ancora piene le nostre fosse.

Per questo mi auguro che la scuola, l’educazione, il mondo della cultura facciano di più e si aprano democraticamente a tutti...