martedì 25 novembre 2014

Un favoloso appartamento a Parigi di Michelle Gable. Recensione.

Buon pomeriggio, amici.
 
In questi giorni vi ho trascurato perché ho dato spazio ad altre forme di creatività che mi hanno distratto: in particolare, ho tentato di sperimentare, con successi alterni, nuove ricette consone alla dieta che sto seguendo. Nel frattempo, però, mi sono dedicata alla lettura di un romanzo che ho acquistato per sbalgio, in un negozio di elettrodomestici, allettata da una copertina molto bella, assai furba, e da un segnalibro altrettanto accattivante con un dipinto di Boldini in primo piano e la promessa di uno sconto all’ingresso della mostra sullo stesso artista che si terrà a Forlì la prossima primavera.
Voglio perciò parlarvi di “Un favoloso appartamento a Parigi” della scrittrice statunitense Michelle Gable edito dalla casa editrice Newton Compton per la collana “anagramma” e tradotto da Francesca Noto.
Cronaca di una delusione annunciata. Oggi sarò un pochino antipatica – perdonatemi - ma sono arrabbiata con me stessa.
La prossima volta sarò meno avventata negli acquisti, giuro! Non si può comprare un libro perché ci piace l’involucro. E non si può comprare un libro il cui colore prevalente è il rosa o il fucsia senza comprendere che si finirà invischiati in un romanzo sentimentale, romantico e molto kitsch. Esattamente quel genere di cose che l’Infeltrita si era riproposta di non leggere mai: il feuilleton!
Sono contenta, ad ogni modo, di redigere oggi la recensione e di mettere un punto conclusivo a questa esperienza.
Non saprei davvero a chi consigliare il romanzo, anche se navigando qui e là in Rete, mi sono accorta che il romanzo è piaciuto e che in America ha venduto un cospicuo numero di copie. Mah.


Incipit
Voleva soltanto andarsene dalla città.
Quando il capo le si avvicinò furtivamente e pronunciò le parole «appartamento», «Nono Arrondissement» e «una tonnellata di robaccia del diciannovesimo secolo», April pensò subito: «vacanza». Ci sarebbe stato da lavorare, certo, ma non aveva importanza, sarebbe andata a Parigi. E come sapeva ogni scrittore, poeta, pittore e, sì, anche i valutatori di mobili, era il luogo perfetto per una fuga.

L’Infeltrita
“Un meraviglioso appartamento a Parigi” intreccia i luoghi comuni sulla Francia e sulla sua capitale alla storia di April Vogt, un’ esperta di mobili europei che lavora per una casa d’aste.
April è una donna in fuga dai suoi problemi esistenziali e coniugali che troverà, in un appartamento favoloso al Nono Arrondissement di Parigi, un vero e proprio tesoro, nonché un rifugio dove smarrirsi e ritrovare la vera se stessa.
Perdonerà  il marito che l’ha tradita? Lo tradirà a sua volta? Divorzieranno? Ricominceranno da zero? Su questi interrogativi pende la conclusione del romanzo. E se non vi interessa, lasciate stare la lettura, il resto è solo un riempitivo.
I mobili antichi e i pezzi di pregio, che si affastellano disordinatamente in quelle che sembrano vere e proprie stanze delle meraviglie, nascondono una storia ancora più preziosa e affascinate: la vita e le peripezie di Marthe de Florian, originaria proprietaria dell’appartamento, figlia illegittima di Victor Hugo, cortigiana maliziosa e ricca di amanti illustri, innamorata del pittore Giovanni Boldini, di cui sarà la musa. April scoprirà quasi subito il ritratto di Marthe realizzato da Boldini, la donna in abito rosa leggermente scarmigliata che sorride e guarda altrove, e i suoi numerosi diari su cui si riverserà l’avida curiosità della protagonista, attratta dalle avventure e dagli amori della demi modaine, che si presenta subito come una vera icona di stile ai tempi della Belle Epoque.

Il lettore si troverà di fronte a un romanzo nel romanzo e oscillerà costantemente fra il tempo di April e delle sue indecisioni (il suo matrimonio al bivio, un passato doloroso e mai affrontato, un flirt parigino) e quello di Marthe che, tuttavia, non riesce a non sembrare una ricostruzione posticcia e un po’ disneyana dell’epoca d’oro dei caffè e degli artisti. Gli amanti di Marthe sono poeti, pittori, artisti da strapazzo e fra loro c’è persino un Dandy che vorrebbe essere la controfigura  del Des Esseintes di Huysmans, ma che di fatto non ne ha né lo spessore né la carica di trasgressione né il benché minimo accenno di quel languore decadente e malato che lo hanno reso un personaggio gigantesco e indimenticabile. In compenso, questo demi-Dandy ha rubato al suo modello la tartaruga dal guscio incastonato di gemme. Che tristezza!
La Francia che viene fuori dalla penna della Gable è una Francia con erre moscia e basco. Una Parigi ovviamente romantica, turistica e da cartolina.
La struttura narrativa è solida, tutto si incastra alla perfezione senza sbavature, ma l’insieme è artificioso e le due storie sono intrise di sentimentalismo, con dialoghi fitti e banali, pieni di Uhm, Uh, Uhmm e di francesismi spruzzati qui e là a mo’ di vezzo. Molti i passaggi che ho reputato di cattivo gusto, non per eccesso di pruderie, ma perché fuori da un contesto grottesco, ironico o espressionistico risultavano essere solo grossolane cadute di stile, espressione di un rapporto con la sessualità piuttosto pre-adolescenziale.
Le lettrici forse dovrebbero sognare accompagnando April nel suo lento avvicinamento a Luc Threbault, il legale che rappresenta i proprietari dell’appartamento. Luc è ovviamente burbero, sulle prime, intrigante, onnipresente, galante al momento opportuno e…fidanzato di un’altra. Eccolo il suo ritratto preciso: “Era attraente in modo inquietante, quell’uomo, attraente al modo degli europei troppo magri, ma comunque attraente. Sì, era un po’ viscido e la quantità di peluria che si intravedeva sul suo petto  al di sotto della camicia sbottonata faceva pensare che avesse bisogno di una ceretta”. Per quel che mi riguarda, già la parola ceretta associata a un personaggio di sesso maschile in un romanzo che pretende di parlare di sentimenti basta a squalificarne del tutto la lettura e a favorire un senso di nausea da cui ancora non mi sono ripresa. Tentazione e adulterio sono serviti su un piatto d’argento, è chiaro sin dalle prime battute dei due personaggi. Del resto, che romanzo d’appendice sarebbe?

Peccato per la storia di Marthe che si perde in un intrico genealogico e in una carrellata di pettegolezzi, come in una telenovelas in costume, di quelle che tuttora piacciono tanto.
Quattrocentotrenta pagine sono troppe per le altalene sentimentali di una donna in crisi. E anche per organizzare un’asta straordinaria. O per svelare un mistero che poco aggiunge alla storia.
L’editore ha curato moltissimo l’involucro dell’opera puntando a una copertina a effetto, a un formato piacevole da maneggiare, utilizzando carta spessa e profumata, delizia per animi romantici. Il marketing ha gabbato anche me, lo confesso. All’interno, però, la cura non è stata altrettanto efficace. In più punti vi sono parole mancanti della desinenza, refusi e un “tutt’ora” che da prof. non posso tralasciare!

Zoom
Del verosimile e dei conti che non tornano.
April Vogt compie trentacinque anni a pagina 255 ed è una affermata valutatrice di mobili antichi. Si sente e agisce come una donna di mezza età, navigata, stanca del suo matrimonio che dura da sette anni (si è dunque sposata a ventotto anni) con un ricchissimo speculatore di Wall Street, conosciuto in aeroporto mentre stava per abbandonare Parigi a seguito del fallimento del museo privato che gestiva. 
Faccio i conti: April gestisce un museo privato prima dei suoi ventotto anni. Non sappiamo quanto sia durata questa esperienza, ma dal modo in cui la donna parla di Parigi, sicuramente più di un anno. Facciamo due o tre. Non sappiamo quanto sia durato il fidanzamento tra April e il futuro marito, fingiamo che sia durato pochissimi mesi: bene, April dai 24 ai 27 anni gestisce un Museo a Parigi e non è sposata. Si è fatta da sola, non ha alle spalle una famiglia facoltosa né studi particolarmente prestigiosi (perlomeno non ci viene raccontato) dispone solo di molta passione per l’arte.
Capperi. Chiedetelo ai laureati in Archeologia o in Beni Culturali se hanno mai sentito parlare di una cosa del genere nella nostra vecchia Europa.
Al più a 24 anni, se ti va bene, in un museo puoi fare da guida e, se sei proprio fortunato, non per volontariato.








venerdì 21 novembre 2014

Con questa pioggia ho il cane infeltrito.

No, non sono impazzita. E non ho un cane. E per fortuna, oggi, non ha piovuto.
Eppure curiosando fra le statistiche del Blog, all'indice "Parole chiave per la ricerca" fra tante voci consuete (recensioni infeltrite, mare di zucchero recensione, tamburo di latta simbolo) mi sono imbattuta in una dicitura bizzarra. CON QUESTA PIOGGIA HO IL CANE INFELTRITO.
Ok, qualcuno che ha digitato questa frase assurda si è trovato fra le pagine dell'Infeltrita. Può capitare. Che si cerchi altro e si giunga in questi lidi, ci sta. Potenza di un motore di ricerca. Do a tutti il benvenuto con un grande sorriso.

Ma mi domando: per raggiungere quale scopo o per ricavare quale strano tipo d'informazione si può pensare di scrivere nella casella di ricerca di Google CON QUESTA PIOGGIA HO IL CANE INFELTRITO???
Per condividere un'esperienza traumatica (del cane o del padrone)?
Per aggiungere un corollario leggero ai devastanti effetti della pioggia di quest'anno?
Per ricevere dei consigli di toelettatura canina?
Per cercare una foto da condividere sulle Reti Sociali e ricavare cascate di "mi piace"?
Boh!
Capisco quelli che leggono l'Infeltrita per la prima volta sperando di trovare consigli utili al lavaggio della lana (e cascano malissimo, perché se anche non parlassi di libri ma di filati dubito davvero che potrei dare consigli efficaci), ma il cane? Un cane infeltrito sotto la pioggia a me sembra il titolo di un bel romanzo.
E sarebbe interessante recensirlo, se qualcuno lo scrivesse. Provateci! Usatelo come incipit.

Ad ogni modo, la bizzarra etichetta mi ha fatto riflettere su quante e disparate possano essere le cose infletrite, e per questo ho deciso di inaugurare una nuova rubrica: RES (Infel)Tritae. Cioè cose ristrette (infeltrite) e anche un po' banali (trite e ritrite, appunto). Un riepilogo, una lezione di recupero.
Sarà una rubrica leggera, di fine settimana. Una rubrica-bilancio in cui raccontare tutto ciò si è infeltrito nei giorni precedenti. Che sia il cane, poverello, o il maglione preferito (quello blu carta da zucchero che sicuramente non riuscirò a sostituire con niente altro di simile e che cercherò disperatamente nelle foto solo per dire "quanto mi stava bene!") o una storia finita male o un accidente di vario tipo, rognosetto ma non troppo drammatico.
  1. Il cane. Ovviamente. Questa settimana ho scoperto che anche il cane può infeltrirsi. E che in questi casi la Rete può essere utile. E magari proporre un ammorbidente. Ho scoperto, inoltre, che su Internet si cercano le cose più strane. Bello, questo. Vuol dire che c'è spazio per la diversità, non siamo omologati. Così è nata la nuova rubrica.
  2. I capelli. Le nebbie autunnali infeltriscono le mie chiome come quelle del cane di cui sopra. E a nulla servono gli shampoo miracolosi all'olio di argan o l'anti-umido che costa quanto un week end in una SPA, comprato sul sito specializzato. I capelli ricci si accorciano, in questo periodo, e se li tocchi hanno la consistenza della retina per rimuovere il grasso incrostato sui piatti. Tuttavia si risparmia sul taglio e si assume uno stile consono alla stagione: lo stile fungo (porcino, cardoncello, prataiolo, non importa purché il cappello sia grande e sproporzionato). 
  3. I libri, ovviamente. Nel corso della settimana non ho trovato "infeltrite" solo le mie recensioni. Ma anche i libri letti. Nel senso che mi hanno precipitato in anguste strettoie, per orizzonti piuttosto corti, a voli bassi. Lunga perifrasi per dire che semplicemente ho sbagliato acquisti. Un esempio per tutti: " Un favoloso appartamento a Parigi" di Michelle Gable per la Newton Compton Edition. Scioccamente gabbata da una bella copertina. La realtà è che mi manca da morire Alice Munro. O David Foster Wallace. O anche Mario Desiati verso il quale sono sempre troppo critica e che, invece, ammiro tantissimo, cioè odi et amo.
  4. Le recensioni. Oltre che ristrette sono diminuite, quantitativamente parlando. La vita quotidiana a volte scalcia (ti richiama, ti strattona, ti esalta e ti affossa) ed è bello e giusto assecondarne le pretese. Nei prossimi giorni cercherò di essere più assidua nell'attività di lettura e discussione. Prometto. Onestà nel giudizio. Severità. Revisione più accurata delle bozze. E meno lungaggini. Insomma, meno ammorbidente e più infeltrimento. 
  5. Il cibo. Nota dolente. Per motivi di salute devo seguire una dieta davvero "infeltrita". Che pena, signori! Io amo la pasta, i salumi, i formaggi d'ogni tipo e le polpette, per non parlare di intingoli e antipasti, cucina regionale e internazionale. E amo il vino. E la birra del tipo Pils. La tavola imbandita, il profumo di arrosto, le patate al forno, gli esperimenti succulenti, le pentole gorgoglianti, i ristoranti, la pizza con la mozzarella di bufala: sto esagerando? Almeno...lasciatemi sognare. Magari suggeritemi qualche romanzo che parli di cucina, come contentino (o sublime tortura).
Bene. Le mie prime RES InfelTritae si sono concluse. Spero che la rubrica vi piaccia anche se trasuda un po' di ego. Per ovviare all'inconveniente, parlatemi pure di voi. Delle vostre RES InfelTritae

Cosa è accaduto nella vostra settimana di "troppo angusto" "troppo ristretto" ispido? Qualcosa per cui avete detto: UFFA, che sfiga!

Ciao, e alla prossima!












giovedì 20 novembre 2014

Chi ha paura del Fantasy? Glenvion, la matrice di Alessandro Falzani.

Salve cari amici,
questo periodo è stato un po’ turbolento e, sebbene non abbia rinunciato ai libri e alla lettura, ho trascurato consapevolmente le pagine del blog. Spero di riuscire a recuperare in fretta e di trovare in voi dei lettori pazienti e comprensivi…
Oggi ritorno con la recensione di un romanzo che mi era stato inviato tempo fa dall’autore (che ringrazio tanto!) e che vi avevo già annunciato: Glenvion. Vol.1 La matrice, di Alessandro Falzani. Finalmente sono riuscita a leggerlo tutto. Sebbene abbia avuto a disposizione una copia in formato Doc (la miopia ha festeggiato!), vi fornirò la scheda dettagliata dell’edizione vera e propria, sia in cartaceo che nella versione e-book.
Si tratta del primo episodio di un Fantasy (lotta tra bene e male, cavalieri e armi sorprendenti)  che si mescola al Medical Thriller (una cura portentosa divide chi vuole utilizzarla per portare giovamento all’umanità e chi invece persegue fini molto meno umanitari).
La lettura è scorrevole, ricca di colpi di scena e di personaggi, alcuni dei quali volutamente ambigui e pronti a tradire la fiducia del protagonista o del lettore.
Personalmente amo libri più introspettivi e meno movimentati, ma so che il genere è molto letto e apprezzato e non voglio che la mia personale diffidenza verso cripte e segrete condizioni la recensione.

Titolo: Glenvion. Vol 1. La matrice

Autore: Alessandro Falzani

Edizione: CreateSpace Independent Publishing Platform; 

Data di pubblicazione: 22 agosto 2014

Numero di pagine: 250

Genere: Fantasy

Formato: cartaceo con copertina flessibile e e- book

Costo: 0,89 euro (e-book formato Kindle);  11,35 euro (cartaceo)

Codice ISBN: 978-1500924157


Incipit
Mechelen, Belgio. Anno 1569
Terra intrisa di sangue, brandelli di carne, una moltitudine di cadaveri. Tutti i cavalieri sono caduti, eccetto tre. Spalla a spalla fronteggiano gli ultimi nemici, le loro spade ormai pesanti si levano a fatica e li difendono con rabbia da uomini meschini e avidi di potere. Con una resistenza disperata si tengono ancora in vita, lo sforzo tuttavia è immenso, troppe le perdite e il nemico più forte del previsto. La chimera, il motivo per cui l’ordine è stato fondato, si sta ora dileguando davanti ai loro occhi. In lontananza alcuni uomini fuggono; guadano il piccolo fiume sostenendo il prezioso carico in quattro, forse cinque: questo è inerme, impassibile, incapace, forse, di opporsi al proprio fato. A poco a poco scompare alla loro vista, tuttavia il suo bagliore, la luce dorata persiste per alcuni minuti, lasciando una scia che il loro sguardo possa seguire. Quella scena si imprime nelle loro menti, ancorandosi all’amarezza del fallimento, mai la dimenticheranno. L’ultimo dei nemici ora cade sotto la lama di Carlo Quinto, mentre Filippo e Francesco Maria si abbandonano, logori dalla fatica, ripongono la fiducia nel loro compagno, alla cui forza affidano l’ultima estenuante difesa. Ormai non si ode più il sibilo delle lame che fendono l’aria, la morte ha portato il silenzio.

L’Infeltrita
La premessa che funge da incipit ci porta indietro nei secoli, all’origine della storia. I personaggi che campeggiano sulla terra cosparsa di cadaveri sono illustri e contribuiscono a rendere solenne l’avvio della narrazione.
Dopo poche pagine ci ritroviamo nel presente, immersi in un contesto borghese e quotidiano, ma il mistero che aleggia attorno al protagonista - il ventenne Patrich, improvvisamente guarito da una malattia che tutti reputavano gravissima - ci suggerisce che presto il romanzo virerà verso sentieri meno ordinari. E la promessa è subito mantenuta!
Il giovane scopre che la sua improvvisa e repentina guarigione è da ricollegarsi all’assassinio del padre e a una cura prodigiosa, non meglio precisata. Si mette così sulle tracce del proprio passato fuggendo in Belgio, dove tutto ha avuto inizio. Qui si ritrova ad essere parte di un ordine antichissimo di cavalieri, con i quali ha in comune una dote straordinaria, che potrebbe essere volta al bene, ma alla quale mirano, purtroppo, le forze del male, incarnate da una casa farmaceutica senza scrupoli. Inevitabile lo scontro. Moltissimi i caduti. Il finale dolce-amaro lascia spazio (forse) agli altri capitoli della saga.

Il lettore si trova immerso in una girandola di peripezie: fughe, ipnosi, inseguimenti, scoperte, morti e feriti, reclusione nel ventre di una torre, addestramento all’uso di armi eccezionali, combattimenti, negoziati, sacrifici. I luoghi del romanzo sono perlopiù chiusi e rispondono alla topica classica della narrativa del mistero: la cattedrale, la torre sotterranea, la cripta fredda e umida, il laboratorio segreto che si nasconde sotto la modernissima sede di una casa farmaceutica potente. Antico e moderno si mescolano nell’immaginario che è alla base della storia.
Glenvion, che dà nome al romanzo, è il luogo più segreto e più interessante, quello in cui riposano le anime dei cavalieri dell’Ordine del Toson d’Oro, anime che brillano attraverso fiaccole/fuochi fatui sempre ardenti. Qui Patrich verrà investito di un compito importantissimo e comprenderà che, quando si sceglie la strada del bene, non lo si fa mai per motivi personali o mossi dallo spirito di vendetta. Il bene è gratuito ed è rivolto agli altri, mai a sé.  La matrice non deve farvi pensare alla sequenza inquietante di numeri e segni in caduta libera, a cui ci ha abituato una nota saga cinematografica: essa ha carne e sangue. Si chiama Katena ed è una bambina. In lei, le speranze e il futuro.

I personaggi che ruotano attorno al protagonista sono molti e il lettore ha sempre la sensazione che nascondano più di quanto dicano. La maggior parte conserva fino alla fine un’ambiguità di fondo che non permette al lettore di capire, di primo acchito, se appartengano alla schiera del bene o del male. E infatti i rovesciamenti sono continui. Ogni vicolo cieco nasconde sempre il varco, il passaggio, la segreta. E dietro ogni muro, c’è un doppio fondo dove qualcuno o qualcosa attende. Siano esse le ombre dei grandi personaggi del passato o, direttamente dalla Colchide, il vello d’oro e spade gemelle capaci di schivare e fendere i proiettili. Nelle saghe fantasy sembra che non ci sia mai nulla di definitivo. Un punto fermo. Tutto è movimento e metamorfosi, senza uscita. Come in certi video giochi di ultima generazione ad ambientazione medievale. La descrizione dei luoghi fantasiosi obbedisce alle esigenze dell’azione e passa in secondo piano, come una quinta. La narrazione è giocata sulla spinta dell’ “urgenza”, del pericolo, della tensione. Non si annoia!!
Mi piace la crescita del personaggio che gradualmente si sposta dall’ordinario allo straordinario e, fra dubbi e perplessità, si rimbocca le maniche e fa suo lo status di eroe (che non si è scelto ma gli è toccato in sorte!)
Apprezzo molto la fantasia dell’autore che ha inanellato episodi e avventure a ritmo incalzante, anche se a volte mi è mancata la… pausa di riflessione, quei momenti in cui, messa da parte l’azione o il dialogo, la voce narrante tratteggia e sfuma il carattere dei personaggi, i loro intenti, le loro peculiarità, la loro evoluzione, in modo che la differenziazione non scaturisca soltanto dalla diversità delle storie (qui tutte eccezionali e fuori dalla norma), ma anche dalla psicologia. Mi sarebbe piaciuto l’ approfondimento del rapporto padre- figlio, al di là della comprensibile e verosimile adorazione che Patrich prova nei confronti del genitore defunto.
Lo consiglio a chi ama l’avventura, gli effetti speciali e il meccanismo parossistico della peripezia.
A chi non cerca digressioni, ma azioni.
  

 Zoom
Concludo con una riflessione sociologica. Mi scuso per il parolone e se mi allontano un po’ dalla strada maestra.
In molti thriller ritrovo il tema della cura portentosa, quella che le case farmaceutiche cercano di accaparrarsi ad ogni costo e sulla base della quale conducono esperimenti più che mostruosi.
La scienza, nell’immaginario comune, continua a essere guardata con diffidenza. I romanzi che propongono medicamenti straordinari leggono nei bisogni più radicati e intimi di ciascuno: sconfiggere la malattia e la morte. Subito. Un desiderio forte che spesso si accompagna alla sfiducia nei confronti della ricerca ufficiale, degli esperimenti, della scienza in genere (non solo di quella de-genere) che sembra lenta, parziale inefficace e troppo lontana dall’esperienza del profano, dall’immediatezza delle sue sensazioni e delle sue osservazioni elementari. Più i linguaggi si fanno complessi, più si accrescono le distanze e maggiori sono le aspettative. Enormi, poi, le delusioni di fronte a fallimenti del tutto umani.
Al pensiero scientifico preferiamo quello magico. Ecco perché continuiamo ad amare Frankestein o Dracula. E intellettuali come Odifreddi un po’ci irritano (be', parlo per me).
La letteratura assorbe e dilata paure, aspettative e delusioni, le trasforma. Produce mostri e mondi fantastici. Vie di fuga che possono essere paradisi o inferni.


domenica 16 novembre 2014

Acciaio di Silvia Avallone. Viaggio in periferia.

Amici, lo so che un Blog dovrebbe essere sempre “sul pezzo”, come ama ripetere la retorica del cattivo giornalismo televisivo. E cioè cercare le novità in libreria, le anteprime e i best seller del momento. Cavalcare le notizie più attuali.
Oggi non obbedirò a questo dictat perché ho deciso di recensire un libro letto qualche anno fa.
Ci sono temi che, in certi momenti, si ripropongono con insistenza e di fronte ai quali non resta che capitolare affrontandoli di petto. 
La PERIFERIA. Come raccontarla? Perché raccontarla?
Dalle borgate celebrate da Pasolini come sede della vita nella sua forma più pura e selvaggia, agli articoli di cronaca di questi giorni, dalla rapida visita al quartiere Tamburi di Taranto, lo scorso mercoledì, alla canzone di Mario Venuti “Ventre della città” che mi piace moltissimo, dalla mia esperienza di insegnante in una scuola di periferia in un quartiere definito “a rischio”, alle proiezioni mentali di tutti i più noti sobborghi del degrado italiano che di tanto in tanto si affacciano nella coscienza collettiva come scenario di miseria morale e materiale su cui si vorrebbe chiudere gli occhi. Tutto congiura affinché io oggi vi parli di un romanzo che metta al centro (scusate per l’involontario ossimoro) la periferia industriale, meschina, dove tra ferocia e cemento si consumano vite ingloriose e dure.
Ho scelto “Acciaio” di Silvia Avallone, edito da Rizzoli nel 2010, perché è il romanzo che più si avvicina all’esperienza di periferia che, direttamente o indirettamente, ho vissuto. E poi perché di recente l’ho consigliato a una collega che mi chiedeva qualche titolo da proporre in una seconda liceo e, temendo di averle dato un suggerimento azzardato, me lo sono riletto in fretta e furia a caccia di conferme. Adesso, lo ribadisco con convinzione: “Acciaio” è un libro che consiglierei agli studenti e dal quale partirei per una vera e propria tempesta di interpretazioni e di confronto su temi scomodi. Per esempio, la discriminazione del debole e del diverso, sentita come “naturale” nella logica di adolescenti privi di un orizzonte valoriale, di riferimenti affettivi, di prospettive materiali. 
Cover edizione "Vintage" di Rizzoli

Incipit
Nel cerchio sfocato della lente la figura si muoveva appena, senza testa.
Uno spiccio di pelle zoomata in controluce.
Quel corpo da un anno all’altro era cambiato, piano, sotto i vestiti. E adesso nel binocolo, nell’estate, esplodeva.
L’occhio da lontano brucava i particolari: il laccio del costume, del pezzo di sotto, un filamento di alghe sul fianco. I muscoli tesi sopra il ginocchio, la curva del polpaccio, la caviglia sporca di sabbia. L’occhio ingrandiva e arrossiva a forza di scavare nella lente.
Il corpo adolescente balzò fuori dal campo e si gettò in acqua.

L’Infeltrita
Trovo l’incipit violento. L’occhio che guarda, che spia, coinvolge il lettore in un voyerismo brutale. Lo sguardo ossessivo e patologico seziona il corpo adolescente e ne profana l’esplosione, l’attimo di massimo splendore in cui, abbandonata l’infanzia, la bellezza risplende freschissima e precede il lento processo di sfioritura. L’occhio che fruga, di cui nostro malgrado diventiamo complici, è quello un padre ossessionato dalla propria figlia a cui vorrebbe impedire qualunque contatto col mondo esterno, considerandola “cosa” di sua proprietà. La possessività resta sospesa su una linea ambigua che spiega solo in parte la sua curiosità morbosa. Ogni pomeriggio dalla finestra di una casa popolare, Enrico tiene d’occhio  con un cannocchiale Francesca e la sua amica Anna.
Siamo in via Stalingrado, a Piombino
Francesca e Anna hanno quattordici anni. Nell’estate che segna la fine della scuola media e l’inizio di un futuro che le vuole troppo precocemente donne, la massima espressione di libertà che viene loro concessa è un tuffo in mare e l’esibizione dei corpi perfetti in una spiaggia affollata da coetanei. La spiaggia senza pretese, non particolarmente pulita, che si apre proprio di fronte ai casermoni di via Stalingrado sembra essere l’unica via di fuga a un paesaggio arido e oppressivo - correlativo oggettivo di una vita altrettanto priva di prospettive. L’orizzonte verso cui convogliano sogni e progetti è l’Isola d’Elba che appare in lontananza, e sembra a portata di mano e al contempo irraggiungibile. Così il futuro e il riscatto sociale. In cui nessuno sembra credere per davvero.
Acciaio è la storia di una periferia operaria dove il lavoro nell’acciaieria è una condanna, un inferno da cui si può tornare abbruttiti o da cui si può non tornare affatto. Essa giganteggia sulle vite di tutti i personaggi della storia e assume, nelle descrizioni della Avallone, fattezze mostruose. Scenario di tragedie annunciate. Sebbene dia lavoro a tutti gli abitanti del quartiere e rappresenti il destino certo della sua popolazione maschile, la fabbrica viene percepita come una terra nemica, inquinata, da derubare, sfidare, dimenticare a colpi di musica sparata a mille watt, storditi dall’alcol, dalla droga, dal sesso comprato a buon mercato in un sudicio privè. 
Eppure la periferia industriale con i suoi impianti incombenti, con le sue regole, le leggi non scritte, sembra essere l’unico universo possibile, impossibile da mutare. Spazio dilatato e, al contempo, chiuso, ripiegato su se stesso, in cui tutte le strade sembrano condurre in fabbrica. E la fabbrica è padrona.
Anna e Francesca attraversano l’estate con la leggerezza dell’incoscienza, con la crudeltà della bellezza che è il loro unico tesoro, saldate in un’amicizia destinata a perdersi, che solo a quattordici anni può essere assoluta, latrice di entusiasmi incontenibili e di tragedie irrimediabili. In loro, ritroviamo i codici impietosi dell’adolescenza sbandata, priva di riferimenti affettivi stabili, frutto di famiglie sgangherate e di un contesto urbano degradato, il cui traguardo più ambito è riuscire a partecipare a una festa al pattinodromo e il successo si misura dal numero di sguardi che si appuntano sulle canottiere strizzate.
Spicca tra numerosi personaggi che ruotano intorno alle due amiche, Alessio, il fratello di Anna. Un ragazzo bello e bruciato (dalla fabbrica, dalla vita, dalla delusione). 
Egli rappresenta la generazione immediatamente precedente a quella delle due amiche. La generazione dei fratelli maggiori è invecchiata presto e non se ne è accorta, appare appannata, sull’orlo della disillusione completa; ricerca emozioni forti senza accorgersi di essere già fallita, passata. È lo spettro di quello che potrebbe accadere ad Anna e Francesca, quando l’estate della loro gioventù perfetta passerà. Alessio è il personaggio che preferisco. Aggressivo, stordito, disperato, costretto dalle regole sociali a mascherare la propria sensibilità. In lui vediamo l’operaio del Duemila, fuori da ogni ideologia, privo di consapevolezza, lontano dal marxismo, ipnotizzato dal mito del denaro, del consumismo sfrenato.
 
Acciaio, trasposizione cinematografica
Il romanzo mi è piaciuto perché personaggi come Anna e Francesca mi sembra di averli conosciuti sui banchi della scuola media che ho frequentato, diversi anni or sono, e su quelli di fronte a cui mi trovo quotidianamente. Nei templi dei sogni impossibili, delle amicizie esclusive, dove vige la legge del più forte, refrattaria a qualunque sforzo educativo (e perciò sfida improcrastinabile di qualunque insegnante!), le ragazze si dividono in belle e “racchie” e i ragazzi appaiono privi di alfabetizzazione sentimentale. 
Il tempo della storia è un presente che sembra scivolare nell’attimo stesso della narrazione veloce, incalzante, aggressiva come si può notare dall’incipit - un biglietto da visita che non viene tradito. La scrittura è caratterizzata da paratassi e strutture ellittiche. Nei dialoghi troviamo il parlato giovanile, i luoghi comuni, le parolacce, i diminutivi.
Silvia Avallone viene spesso citata come esempio di una nuova generazione di scrittori, rea di sciatteria stilistica. Io non sono d’accordo. Trovo, invece, potenti e icastici alcuni passaggi.
Alcuni difetti: forse la struttura complessiva del romanzo sembra sbriciolarsi in molti episodi col rischio di perdere di vista la maturazione dei caratteri principali. Forse l’evoluzione dell’amicizia delle due ragazze, la brusca divergenza delle loro storie può apparire irragionevole, poco approfondita.
In ogni caso, l’insieme è riuscito e oggi mi resta l’affresco di una periferia brulicante di vita, tragica e troppo spesso dimenticata.

Zoom
C’è un momento della narrazione in cui mi è sembrato che Silvia Avallone sia riuscita con particolare efficacia a raccontare il senso tragico del tempo che fugge, della bellezza meravigliosa che ora c’è e fra poco appassirà, il culmine di un’estate fantastica: è il racconto del 15 agosto e della festa al pattinodromo in cui si ritrovano “tutti ma proprio tutti”. Il giro di boa.
Per Francesca e Anna la festa rappresenta l’ingresso ufficiale nel mondo dei “grandi”, per Alessio è il momento della nostalgia e della disillusione definitiva, per Lisa la “racchia” il momento del riscatto, della reazione contro tutto e tutti, per “le ragazze magre e slanciate, che poco importa cosa combineranno nella vita, perché nell’istante giusto dell’adolescenza sono lì: al centro della pista, nel pieno della festa, sotto i riflettori. È un istante impagabile di gloria”. Tutti “vogliono crederci, che quello era il massimo. Si convincevano, ognuno nella sua testolina, che quella era la vita perfetta”. Una festa scalcagnata e decadente. 
L’episodio rappresenta meglio di altri passaggi la chiusura di orizzonte, l’incapacità di guardare al futuro, di oltrepassare il presente, l’hic et nunc, di cercare un’alternativa e un altrove.
Per molti di questi personaggi la sconfitta è qui.

Quanti di voi hanno già letto Acciaio?
Siete fra quelli che lo hanno apprezzato o fra i lettori più critici?
Lo presentereste a una classe? E con quali modalità (lettura libera, lettura guidata, lettura con dibattito e domande)?





martedì 11 novembre 2014

Fiaba d'amore di Antonio Moresco.

Stamattina la casa ha i colori di una giornata autunnale. Da campionario. C’è bisogno di accendere la luce se non si vuole galleggiare in una penombra triste, più che malinconica. Mi chiedevo quale libro potesse rispecchiare il mio umore e l’aspetto delle cose intorno senza deprimermi ulteriormente. I miei occhi hanno perciò percorso uno scaffale a caso della libreria e subito hanno incontrato una copertina viola.
Ecco il libro che fa per me, - ho pensato - non potevo scegliere di meglio!
Così ho deciso di parlarvi di Fiaba d’amore, un romanzo breve di Antonio Moresco, edito da Mondadori per la collana “Libellule”. Lo scorso marzo ho avuto la fortuna di ascoltare l’autore nel corso di un incontro in libreria; intimorita dalla sua timidezza schiva e dall’aria fragile e quasi acetica, non ho avuto il coraggio di farmi firmare un autografo. Mi sembrava di profanare la strana aura di santità che scaturiva dalla sua figura. Mi ricordava infatti il protagonista del film “La leggenda del santo bevitore”. Lo so, vi sembro una matta: ridete pure, vi autorizzo!
Mio marito mi prende in giro ancora oggi. Sostiene che, acquistato il libro, io sia letteralmente fuggita dalla libreria in cui si era tenuta la bella presentazione. Confesso di essermene pentita quasi subito, consapevole di aver perso una grande occasione.


Incipit
C’era una volta un vecchio che si era innamorato perdutamente di una meravigliosa ragazza.
Che poi non era solo un vecchio. Era anche uno straccione, uno di quelli che dormono per strada sopra i cartoni, un uomo perduto, un rifiuto umano.
Nessuno sapeva chi era, neanche gli altri straccioni, perché se ne stava sempre da solo, non parlava mai con nessuno

L’Infeltrita
Il titolo promette una fiaba. La promessa è pienamente mantenuta.
Il titolo promette amore e di amore si racconta fin dalle primissime righe.
Le carte sono subito scoperte. Il lettore ritrova il ritmo lento, il lessico semplice, ipnotico, quasi formulare nelle sue ripetizioni, il senso di assoluto che è proprio delle fiabe dove non c’è un tempo preciso né uno spazio topograficamente rintracciabile, perché l’eccesso di realismo romperebbe l’incanto, toglierebbe grandezza alla narrazione riducendola a cronaca, brutta copia del reale.
Una ragazza bellissima che si innamora di un barbone sudicio - il cui unico tesoro è una manica cucita in cui nasconde qualcosa e una colomba che vola, altissima - sulla sua testa, ha dell’incredibile. Moresco ci dice, tra le righe, che nel reale accade sovente l’impossibile anche se nella loro cecità gli uomini non se ne accorgono o, limitati da vedute ristrette e da categorie di pensiero asfittiche, ne ridono. La fiaba è l’unico linguaggio capace di raccontare l’impossibile, di scorgere un varco nella grigia successione degli avvenimenti. Quel varco è la speranza.
Il racconto segue la nascita, lo sviluppo, la fine, il ritorno di un amore assoluto e inspiegabile come sempre dovrebbe essere l’amore. L’altalena sentimentale porta l’uomo (di cui non si conosce la vita pregressa) a sperimentare la forza del sentimento, il dolore schiacciante dell’abbandono, la morte. L’altalena sentimentale porta la donna, che nella vita desidera “fare qualcosa di grande”, a dare tutto e poi a toglierlo, a volere e a non volere più. E poi a volere di nuovo, a sperimentare la catabasi del pentimento, a sopportare una serie di prove e peripezie per ritrovare l’uomo che aveva abbandonato e strapparlo alle grinfie della morte. 
In sottofondo, scivolano le chiacchiere malevole degli altri straccioni che rappresentano la miopia del genere umano abbrutito dalle convenzioni, il pettegolezzo cattivo, l’indifferenza, la presunzione di chi non vede l’ora di pronunciare un soddisfatto “te l’avevo detto!”, di chi non ha più speranza e vede nel mondo solo interesse, corruzione, malvagità, desideri irrealizzabili. 
Il tema classico del viaggio nell’oltretomba che fu caro agli antichi, qui assume contorni meravigliosi. La città dei morti è simile alla città dei vivi, solo più fredda e in penombra. Riproduce gli stessi luoghi della città dei vivi, ma sotto una coltre di neve. Qui regna una solitudine assoluta. Non sarà facile per il vecchio e la ragazza incontrarsi laggiù. In realtà, la città dei vivi e la città dei morti non sono lontane, non hanno limiti invalicabili. È facile per gli uomini passare dall’una all’altra senza rendersene conto. E molti sono quelli che dalla morte sono tornati alla vita, e non lo sanno. Il romanzo di Moresco scardina anche la certezza dell’irreversibilità della morte e lo fa con la naturalezza che è propria delle fiabe. La stessa che non ci fa battere ciglio di fronte a un lupo che si traveste da nonna e davanti a un gatto con gli stivali. 

Il tono fiabesco attenua temi dolorosi come l’abbandono e il rifiuto, porta il lettore ad accettare l’impossibile, sublima gesti di profonda pietà che, in un altro contesto, sarebbero apparsi grotteschi e ripugnanti. Il corpo sporco del barbone appare al lettore e alla ragazza in tutto il suo sudiciume, ci viene descritto senza giri di parole, altrettanto sinceramente viene raccontato il processo di abbrutimento della ragazza meravigliosa quando si mette in cerca del vecchio, pentita di averlo abbandonato. La bellezza di una persona sembra andare oltre la corporeità fatta di materia, carne, odori, consistenze. L’amore è un’operazione di politura reciproca, sgrossa le incrostazioni e le brutture e giunge al nocciolo pulito e levigatissimo dell’anima.
Nume tutelare dello straccione e della ragazza bellissima è un colombo che vola, altissimo, sulle loro teste. Sebbene sia un simbolo cristiano, qui è difficile attribuirgli un significato univoco. Forse è la proiezione dell’animo del barbone, la sua purezza, la sua bellezza. Forse uno spirito-guida. Forse entrambe le cose.

Il lettore si lascia cullare da una prosa che non conosce stridore, dissonanza, schianto. Sostantivi e aggettivi non sono mai eccentrici, ma hanno la facilità della lirica antinovecentesca, quella delle rime chiare, in -are, dove non c’è bisogno del vocabolo desueto, a effetto, né di giochi di parole, né di schivare la normalità. Perciò la ragazza è semplicemente “bella”, il suo volto “meraviglioso”. Lo straccione “perdutamente innamorato” la sua barba “ispida”.  Le frasi brevi e perfettamente concluse hanno in sé una sorta di solennità che le rende definitive, importanti.
Questo libro si legge con stupore. È un libro anomalo che non somiglia a nessun altro. Lo si legge affidandosi ciecamente al narratore, sebbene non si comprenda, se non alla fine, dove costui voglia condurci. Lo si legge senza pause e la fine arriva in fretta lasciandoci addosso la sensazione di aver percorso spazi sconfinati e altezze vertiginose.


Zoom
Si potrebbe pensare, sbagliando, che le fiabe non siano una lettura per adulti. Dipende da cosa chiediamo e da cosa ci aspettiamo dalla letteratura.
Antonio Moresco alla letteratura chiede meraviglia, capacità di aprire un varco, di accendere una lucina (titolo di un altro suo romanzo poeticissimo), di compiere un miracolo. Se la letteratura rinuncia all’impossibile tradisce il suo mandato. Perché la realtà sa essere molto meno verosimile di un racconto verosimile, perché la realtà conosce anche l’impossibile, il varco, la lucina, il miracolo: una letteratura che non contempli tutto questo fallisce.
Di Moresco amiamo spesso ricordare la polemica contro la letteratura post-moderna ripiegata su se stessa, fredda e cervellotica, quella che gioca con le infinite possibilità dell’arte combinatoria e si auto-compiace, una letteratura - a suo dire – che tradisce Omero e Dante. A me piace anche ricordare che dietro questa polemica si nasconde una fiducia generosa nei confronti della parola poetica, nella sua forza incantatrice, capace non solo di leggere il mondo, ma di farlo più bello e più buono.
Perciò sono felice di aver ritrovato oggi questo romanzo e di poterlo consigliare a tutti. 




lunedì 10 novembre 2014

Botteghe soffitte e biblioteche. I luoghi delle meraviglie.

Cari lettori,
oggi mentre leggevo “Il cardellino” di Donna Tartt mi sono imbattuta nella descrizione della bottega di un antiquario, un luogo delle meraviglie in cui il protagonista - un orfano contro cui la sorte sembra essersi particolarmente accanita - ritrova pace e voglia di vivere. La bottega è descritta con tutti quegli ingredienti che stuzzicano furbescamente l’immaginazione del lettore facendo leva sul suo bisogno di vivere appartato (late biosas ci insegnavano un tempo al liceo classico), sulla ricerca di un angolo nascosto in cui i rumori e i problemi del quotidiano non riescono ad arrivare.
Gli ingredienti che sembrano solleticare la nostra fantasia sono la penombra, il senso di chiusura rispetto al mondo esterno (come fossimo all’interno di un perimetro sacro), l’accumulo di oggetti, un odore buono, la struttura apparentemente caotica del labirinto in cui l’inquietudine data dalla possibilità di perdersi è mitigata dalla dolcezza dell’arredo.
Vi riporto il passo.
Una giungla di dorature risplendeva nell’ambiente rischiarato dalla luce che filtrava dai vetri sporchi della finestra: putti dorati, cassettoni e candelabri in oro. e – a coprire l’odore del legno antico – un tanfo di trementina, pittura a olio e vernice” “…il labirinto ai piedi delle scale, legno chiaro come il miele, legno scuro come la melassa, bagliori d’oro, d’argento e d’ottone nella luce pallida…
Ho iniziato a ripercorrere con la mente tutti quei luoghi meravigliosi in cui mi sono imbattuta nel corso delle mie letture, quelli che, anche per pochi istanti, mi hanno fatto desiderare fortemente (e talvolta irragionevolmente) di essere al posto del protagonista del romanzo.
Tutti hanno più o meno le stesse caratteristiche della bottega antiquaria descritta da Donna Tartt.
Iniziamo ab ovo.

La tana del coniglio
Se è vero che la mia storia di lettrice nasce quando avevo sette anni da una riduzione per
bambini di “Alice nel Paese delle Meraviglie” che mi fu regalata, si potrà ben capire come il luogo letterario che più mi ha fatto sognare, la più fertile delle immagini, la madre di tutte le fantasie libresche sia senza dubbio la tana del coniglio bianco. Un buco profondissimo, aperto nella corteccia di un albero, in cui la bionda Alice fluttua dolcemente scorgendo nella penombra oggetti di vario tipo: mensole, barattoli di marmellata, carte geografiche, cannocchiali, lampade, quadri, dondoli e sedie, mura vagamente tondeggianti che non disdegnano la carta da parati. Un ambiente inquietante e rassicurante al contempo: ci sono arredi consueti di foggia antica, accatastati come in una soffitta, ma siamo all’interno di un albero e precipitiamo in un pozzo di cui non si vede la fine.
Simile alla tana del coniglio è la casa di Frodo de "Il Signore degli anelli". La trasposizione cinematografica, ahimè, ha preso in ostaggio il mio immaginario, non ricordo più le impressioni che ricavai dalla prima lettura…

Il palazzo labirinto
L’imprinting è ancora in una lettura d’infanzia: “Il giardino segreto”. La storia è ambientata in un castello immerso nella brughiera. La protagonista, orfana e capricciosa, viene adottata da uno zio bizzarro che la ospita in una dimora immensa e lugubre in cui la ragazzina potrebbe perdersi o fare incontri strani se non ci fosse qualcuno sempre pronto a sorvegliarla. Non fu la segretezza del giardino abbandonato a incuriosirmi, ma proprio le peregrinazioni proibite e temerarie della protagonista fra stanze, gallerie e corridoi del palazzo. La mancanza di un centro, l’infinito potenziale che i luoghi labirintici contengono, il senso di chiusura e di ampiezza (un ossimoro architettonico), la possibilità di incontri imprevisti rappresentano per me il concetto più alto di avventuroso. Più della giungla, più di un’isola selvaggia, più di un teatro di guerra.
La scuola mi ha fatto poi scoprire un altro palazzo labirinto, decisamente più raffinato: “Il palazzo di Atlante” in cui i cavalieri dell’Ariosto vagano disperati in cerca dell’uscita, ingannati dall’immagine chimerica dell’oggetto dei propri desideri che li riporta indietro, nel cuore del castello proprio quando sono sul punto di liberarsi.
Fughe di stanze e palazzi senza uscita sono anche in “Orlando” di Virginia Woolf o nella dimora angosciante di Des Esseintes in “A ritroso”.
L’archetipo di tutto questo è nel labirinto del Minotauro e nel palazzo di Cnosso a Creta.
Mi piace scovare radici classiche alle mie fisime letterarie, mi fa sentire meno infantile!!!

La biblioteca labirinto
Dal palazzo-labirinto alla biblioteca-labirinto il passo è breve e i riferimenti letterari eccellenti. Impossibile per un lettore non sognare ad occhi aperti di fronte alla biblioteca ottagonale de “Il nome della rosa”, un luogo geometricamente perfetto eppure capace di confondere chiunque si trovi all’interno. Chi di voi non ha contemplato per almeno cinque minuti di fila la pianta allegata al romanzo? Chi non si è perso in quelle sale?
Qualcosa di simile è anche ne “L’ombra del vento” di Zafòn dove la biblioteca si fa Cimitero dei Libri Dimenticati acuendo il senso di mistero, ma perdendo (forse) in eleganza. Non è un caso che il best seller di Zafòn sia un libro particolarmente caro ai bibliomani, perché oltre al cimitero dei libri, troviamo pure una bella libreria antiquaria in cui tra volumi e scaffali si aggirano tipi misteriosi.
Ma l’apoteosi è nella Biblioteca di Babele di Jorge Luis Borges in cui il labirinto coincide con l’intero universo. L’universo di tutti i libri possibili, inferno e paradiso di un lettore. E dunque citiamo:
 M'inganneranno, forse, la vecchiaia e il timore, ma sospetto che la specie umana - l'unica - stia per estinguersi, e che la Biblioteca perdurerà: illuminata, solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorruttibile, segreta.
Così come inutili incorruttibili e segreti sono in genere i Luoghi delle Meraviglie e i loro oggetti affastellati…

Il labirinto (punto!)
Vi sarete accorti sicuramente che il comune denominatore è, alla fine, il labirinto. Un tuffo ancora nelle mie letture infantili per scovare la sorgente di questa immagine, e ritrovo "Labyrinth", che forse in origine era un film da cui fu tratto il romanzo e non viceversa (illuminatemi se ci riuscite). La trama era incentrata sul percorso della protagonista all’interno di uno strano labirinto. Labirintico è anche il giardino di "Shining" di Stephen King, sebbene la mia strana attrazione per gli spazi chiusi abbia reso più significativo il ricordo dell’Overlook Hotel con i suoi lunghi corridoi e la teoria di stanze (non sempre) ben chiuse.
“Lo specchio nello specchio” di Michael Ende riprende il mito del labirinto in una prospettiva surreale e onirica. Non so dire quanto abbia corteggiato questo libro prima di riuscire a procurarmelo, in tempi in cui la Rete aiutava poco….

Dormire in una biblioteca
Lasciamo stare i labirinti e veniamo a un’altra prospettiva gustosa per il lettore fanatico: dormire in una stanza piena di libri. Dormire, goduria delle godurie, in una biblioteca!
Lo fa Tamura Kafka, uno dei due protagonisti di “Kafka sulla spiaggia”, il romanzo di Murakami Haruki che amo di più e forse proprio per questa ambientazione. Tamura Kafka fugge dalla sua casa e da un’oscura profezia e si nasconde in una biblioteca privata, ordinatissima e luminosa, che viene descritta come un’oasi di pace e di silenzio. Sarà per lui un vero e proprio perimetro magico dove avrà la possibilità di vivere esperienze ai limiti dell’ordinario e di ritrovare la propria identità, nonché il senso della sua stessa fuga.
Vive e dorme in una biblioteca il professor Kien di “Auto da fé” (ne abbiamo parlato di recente, clicca qui se non ricordi). Quattro cameroni, i libri ricoprono i muri sino al soffitto, le finestre sono altissime con vetri opachi, in modo che il disordine del mondo esterno non contamini il silenzio perfetto dello studioso in dialogo coi suoi preziosissimi tomi. L’attaccamento di Kien alla propria casa-biblioteca coinvolge il lettore che, suo malgrado, partecipa alle sventure del protagonista e soffre insieme a lui quando a costui è interdetto l’accesso al suo angolo di paradiso.

Luoghi aperti, ma non troppo
Vi sono, in letteratura, luoghi solo apparentemente aperti, di fatto però involuti e chiusi in cui si procede alla cieca, per ambagi. 
1.      la città delle meraviglie
prendiamo una qualunque delle città invisibili di Italo Calvino. Esse hanno in sé la bizzarria dell’immaginario poetico di ogni tempo e di ogni dove. E sembrano la proiezione di ciò che abbiamo nella testa. Chiuse da mura, hanno un perimetro finito ma anche le infinite possibilità dell’arte combinatoria. Le ho percorse, una dopo l’altra, con la tentazione di cambiare ordine, di mescolarle, di ritornare più volte dalla stessa allungando la lettura, rendendo il viaggio di Marco Polo interminabile e sempre diverso.
2.      il bosco degli incontri
ritorniamo all’Orlando furioso e inseguiamo Angelica in fuga nella selva. Un labirinto verde fatto di bivi e radure, di incontri e allontanamenti, di avventure e miraggi. Quello che dovrebbe essere un luogo di solitudine e raccoglimento appare, in realtà, assai affollato. Sorpresa dopo sorpresa, si procede senza meta e senza una direzione precisa. Un bosco di tal schiatta si ripresenta pure nelle avventure della solita Alice che, naturalmente, vi si perde. Le fanno compagnia creature illogiche e situazioni impreviste. Alice procede senza battere ciglio, cerca la SUA strada, qualunque cosa ciò voglia dire e intanto si immerge in un universo dominato dall’irrazionalità cercandovi un ordine o imponendoglielo. Curiosità e razionalità la accompagnano e io non posso impedire a me stessa un rispecchiamento che mi accompagna ormai da moltissimi anni. Crescendo non ho smesso di amare questo classico e di riviverlo meraviglia dopo meraviglia.

Botteghe e…
Chiudiamo la carrellata di luoghi cari al lettore ricordando le botteghe, possibilmente piccole e raccolte. Che vendano libri (L’ombra del vento, Zafòn), pasticcini (Chocolat, Harris), merletti (Il paradiso delle signore, Zola), giocattoli (La bottega dei giocattoli, Carter ), orologi (L’orologiaio di Everton, Simenon) non importa. La retorica vuole che entro quelle mura il tempo si sia fermato, che la luce filtri da vetrate spesse e opache e ci sia un odore di buono. Magari un po’di polvere. Tutto ciò che fa bottega vende evidentemente bene: lo sanno gli editori che amano inserire questa parolina magica in molti dei loro titoli, indipendentemente dalla pertinenza. Fate la prova: inserite “bottega” e “romanzo” in un motore di ricerca... non avrete che l’imbarazzo della scelta!

….soffitte
sorelle alle botteghe sono poi le soffitte, meno squallide delle turpi cantine e anche meno paurose (forse). Luogo della memoria familiare. Rifugio. Stratificazione di oggetti abbandonati alla polvere e alla semi-oscurità. Territorio di scoperte e di tesori nascosti, ancorché casalinghi. Locus amoenus del crepuscolare incallito, come molti lettori diventano a volte. Anche le soffitte possono diventare vere e proprie meraviglie se chi vi si aggira conserva lo sguardo incantato dei bambini e ha un po’ di tempo da perdere fra le scartoffie. Quando uno scrittore si sofferma a descrivere una soffitta, la sua prosa diventa generosa rassegna di cose inutili che il luogo rende misteriose e importanti proprio perché fuori dal circuito banale dell’uso e da una mera funzione strumentale.


Ecco, ho finito la rassegna dei luoghi che amo ritrovare nei libri. Paesi delle Meraviglie senza ordine né logica. Mondi rinchiusi. Miniature imperfette.
Mi scuso se mi sono dilungata oltre ogni previsione e vi lascio la parola.
Adesso tocca a voi raccontarmi quali sono gli spazi letterari che vi fanno sognare.
Sono spazi chiusi o aperti? Botteghe e soffitte o vaste praterie e selvagge brughiere?