Stamattina la casa ha i colori di una giornata autunnale. Da
campionario. C’è bisogno di accendere la luce se non si vuole galleggiare in
una penombra triste, più che malinconica. Mi chiedevo quale libro potesse
rispecchiare il mio umore e l’aspetto delle cose intorno senza deprimermi ulteriormente.
I miei occhi hanno perciò percorso uno scaffale a caso della libreria e subito
hanno incontrato una copertina viola.
Ecco il libro che fa per me, - ho
pensato - non potevo scegliere di meglio!
Così ho deciso di parlarvi di Fiaba d’amore, un romanzo
breve di Antonio Moresco, edito da Mondadori per la collana “Libellule”. Lo
scorso marzo ho avuto la fortuna di ascoltare l’autore nel corso di un incontro
in libreria; intimorita dalla sua timidezza schiva e dall’aria fragile e quasi
acetica, non ho avuto il coraggio di farmi firmare un autografo. Mi sembrava di
profanare la strana aura di santità che scaturiva dalla sua figura. Mi
ricordava infatti il protagonista del film “La leggenda del santo bevitore”. Lo
so, vi sembro una matta: ridete pure, vi autorizzo!
Mio marito mi prende in giro ancora oggi. Sostiene che,
acquistato il libro, io sia letteralmente fuggita dalla libreria in cui si era
tenuta la bella presentazione. Confesso di essermene pentita quasi subito,
consapevole di aver perso una grande occasione.
Incipit
“C’era una volta un vecchio che si era innamorato perdutamente di una
meravigliosa ragazza.
Che poi non era solo un vecchio. Era anche uno straccione, uno di
quelli che dormono per strada sopra i cartoni, un uomo perduto, un rifiuto
umano.
Nessuno sapeva chi era, neanche gli altri straccioni, perché se ne
stava sempre da solo, non parlava mai con nessuno”
L’Infeltrita
Il titolo promette una fiaba. La promessa è pienamente
mantenuta.
Il titolo promette amore e di amore si racconta fin dalle
primissime righe.
Le carte sono subito scoperte. Il lettore ritrova il ritmo
lento, il lessico semplice, ipnotico, quasi formulare nelle sue ripetizioni, il
senso di assoluto che è proprio delle fiabe dove non c’è un tempo preciso né
uno spazio topograficamente rintracciabile, perché l’eccesso di realismo
romperebbe l’incanto, toglierebbe grandezza alla narrazione riducendola a
cronaca, brutta copia del reale.
Una ragazza bellissima che si innamora di un barbone sudicio - il cui unico tesoro è una manica cucita in cui nasconde qualcosa e una colomba
che vola, altissima - sulla sua testa, ha dell’incredibile. Moresco ci dice, tra
le righe, che nel reale accade sovente l’impossibile anche se nella loro cecità
gli uomini non se ne accorgono o, limitati da vedute ristrette e da categorie
di pensiero asfittiche, ne ridono. La fiaba è l’unico linguaggio capace di
raccontare l’impossibile, di scorgere un varco nella grigia successione degli
avvenimenti. Quel varco è la speranza.
Il racconto segue la nascita, lo sviluppo, la fine, il
ritorno di un amore assoluto e inspiegabile come sempre dovrebbe essere
l’amore. L’altalena sentimentale porta l’uomo (di cui non si conosce la vita
pregressa) a sperimentare la forza del sentimento, il dolore schiacciante
dell’abbandono, la morte. L’altalena sentimentale porta la donna, che nella vita
desidera “fare qualcosa di grande”, a dare tutto e poi a toglierlo, a volere e
a non volere più. E poi a volere di nuovo, a sperimentare la catabasi del
pentimento, a sopportare una serie di prove e peripezie per ritrovare l’uomo
che aveva abbandonato e strapparlo alle grinfie della morte.
In sottofondo, scivolano le chiacchiere malevole degli altri straccioni che rappresentano la miopia del genere umano abbrutito dalle convenzioni, il pettegolezzo cattivo, l’indifferenza, la presunzione di chi non vede l’ora di pronunciare un soddisfatto “te l’avevo detto!”, di chi non ha più speranza e vede nel mondo solo interesse, corruzione, malvagità, desideri irrealizzabili.
Il tema classico del viaggio nell’oltretomba che fu caro
agli antichi, qui assume contorni meravigliosi. La città dei morti è simile
alla città dei vivi, solo più fredda e in penombra. Riproduce gli stessi luoghi
della città dei vivi, ma sotto una coltre di neve. Qui regna una solitudine assoluta. Non sarà facile per il
vecchio e la ragazza incontrarsi laggiù. In realtà, la città
dei vivi e la città dei morti non sono lontane, non hanno limiti invalicabili.
È facile per gli uomini passare dall’una all’altra senza rendersene conto. E
molti sono quelli che dalla morte sono tornati alla vita, e non lo sanno. Il
romanzo di Moresco scardina anche la certezza dell’irreversibilità della morte e lo
fa con la naturalezza che è propria delle fiabe. La stessa che non ci fa
battere ciglio di fronte a un lupo che si traveste da nonna e davanti a un
gatto con gli stivali.
Il tono fiabesco attenua temi dolorosi come l’abbandono e il
rifiuto, porta il lettore ad accettare l’impossibile, sublima gesti di profonda
pietà che, in un altro contesto, sarebbero apparsi grotteschi e ripugnanti. Il
corpo sporco del barbone appare al lettore e alla ragazza in tutto il suo sudiciume, ci viene descritto senza giri di
parole, altrettanto sinceramente viene raccontato il processo di abbrutimento
della ragazza meravigliosa quando si mette in cerca del vecchio, pentita di
averlo abbandonato. La bellezza di una persona sembra andare oltre la
corporeità fatta di materia, carne, odori, consistenze. L’amore è un’operazione
di politura reciproca, sgrossa le incrostazioni e le brutture e giunge al
nocciolo pulito e levigatissimo dell’anima.
Nume tutelare dello straccione e della ragazza bellissima è
un colombo che vola, altissimo, sulle loro teste. Sebbene sia un simbolo
cristiano, qui è difficile attribuirgli un significato univoco. Forse è la
proiezione dell’animo del barbone, la sua purezza, la sua bellezza. Forse uno
spirito-guida. Forse entrambe le cose.
Il lettore si lascia cullare da una prosa che non conosce
stridore, dissonanza, schianto. Sostantivi e aggettivi non sono mai eccentrici, ma hanno la facilità della lirica antinovecentesca, quella delle rime chiare,
in -are, dove non c’è bisogno del vocabolo desueto, a effetto, né di giochi di
parole, né di schivare la normalità. Perciò la ragazza è semplicemente “bella”,
il suo volto “meraviglioso”. Lo straccione “perdutamente innamorato” la sua
barba “ispida”. Le frasi brevi e
perfettamente concluse hanno in sé una sorta di solennità che le rende
definitive, importanti.
Questo libro si legge con stupore. È un libro anomalo che
non somiglia a nessun altro. Lo si legge affidandosi ciecamente al narratore, sebbene non si comprenda, se non alla fine, dove costui voglia condurci. Lo si
legge senza pause e la fine arriva in fretta lasciandoci addosso la sensazione di aver percorso spazi sconfinati e altezze vertiginose.
Zoom
Si potrebbe pensare, sbagliando, che le fiabe non siano una
lettura per adulti. Dipende da cosa chiediamo e da cosa ci aspettiamo dalla
letteratura.
Antonio Moresco alla letteratura chiede meraviglia, capacità di
aprire un varco, di accendere una lucina (titolo di un altro suo romanzo poeticissimo), di
compiere un miracolo. Se la letteratura rinuncia all’impossibile tradisce il
suo mandato. Perché la realtà sa essere molto meno verosimile di un
racconto verosimile, perché la realtà conosce anche l’impossibile, il varco,
la lucina, il miracolo: una letteratura che non contempli tutto questo fallisce.
Di Moresco amiamo spesso ricordare la polemica contro la letteratura post-moderna ripiegata su se stessa, fredda e
cervellotica, quella che gioca con le infinite possibilità dell’arte
combinatoria e si auto-compiace, una letteratura - a suo dire – che tradisce
Omero e Dante. A me piace anche ricordare che dietro questa polemica si
nasconde una fiducia generosa nei confronti della parola poetica, nella sua
forza incantatrice, capace non solo di leggere il mondo, ma di farlo più bello
e più buono.
Perciò sono felice di aver ritrovato oggi questo romanzo e
di poterlo consigliare a tutti.
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