mercoledì 9 luglio 2014

La versione di Barney di Mordecai Richler

Ieri su Twitter, sotto l’hashtag #recensione, @CasaLettori proponeva di sintetizzare e interpretare un libro in 140 caratteri: occasione servita su un piatto d’argento, se si considera che il mio unico account presente su Twitter, recensioninfeltrite@russoprof, molto prima della nascita di questo blog, era stato concepito all’uopo, e che il nome stesso di INFELTRITA è stato figlio della scelta di ridurre, rimpicciolire più o meno maldestramente recensioni e affini.
Dovendo individuare qualche libro da proporre all’allettante gioco di scrittura ho pensato a tre romanzi che ancora non avevo recensito e che, tuttavia, mi rappresentavano bene come lettrice. La versione di Barney, Il tamburo di latta e 1Q84.
Rispettivamente, i tweet elaborati per ciascuno sono i seguenti:
  1. La versione di Barney: apologia di Panofsky-canglia, tragicomica battaglia della memoria contro la perdita, l'oblio
  2. ll tamburo di latta di Günter Grass. [concerto dodecafonico] [1] Espressionismo che stride sugli orrori del secolo breve, sulla Germania [Polonia] in fiamme
  3. Aomame e Tengo, due mondi, due lune, una sinfonietta. #1Q84, anime a tinte fosche - e l'inquietudine [che]ci assedia.
Prendendo spunto dal gioco ho deciso di occuparmi diffusamente di questi tre romanzi e lo faccio dedicando un post per ognuno.
Comincio oggi con La versione di Barney del canadese Mordecai Richler (1931-2001), GLI ADELPHI 267, l’ultimo che ho letto, in ordine di tempo.
Lo consiglio perché non si può fare a meno di Barney Panofsky, un personaggio - canaglia che mi fa pensare a Cecco Angiolieri, ai clerici vagantes e, per strani giri, anche ad Archiloco e Ipponatte.


Incipit
Tutta colpa di Terry. È lui il mio sassolino nella scarpa. E se proprio devo essere sincero, è per togliermelo che ho deciso di cacciarmi in questo casino, cioè di raccontare la vera storia della mia vita dissipata. Fra l’altro mettendomi a scribacchiare un libro alla mia veneranda età violo un giuramento solenne, ma non posso non farlo. Non posso lasciare senza risposta le volgari insinuazioni che nella sua imminente biografia Terry McIver avanza su di me, le mie tre mogli (o come dice lui la troika di Panofsky), la natura della mia amicizia con Boogie e, ovviamente, lo scandalo che mi porterò fin nella tomba.
L’infeltrita.
Chi è Barney Panofsky?
È un agglomerato di difetti portati con orgoglio, come fossero medaglie al merito. Ricco da fare schifo, capriccioso, sospettato di omicidio, detestato - a torto o a ragione - da molti, oggetto di invidia, capro espiatorio, turpiloquio vivente, concentrato di umorismo ebraico, vecchio goliardico mai cresciuto, politicamente scorretto. L’aggettivo che meglio definisce Barney è shmuk che, in lingua Yiddish, non è esattamente un complimento da gran signori, anzi diciamo che nella sua forma più edulcorata potrebbe significare imbecille, carogna, ma se parlassimo in latino sarebbe il mentula catulliano, epiteto derivato dall’organo genitale maschile, in italiano facilmente traducibile e, per di più, in diverse varianti. Dice di se stesso: “Sono sopravvissuto alla scarlattina, agli orecchioni, a due rapine a mano armata, alle piattole, all’estrazione di tutti i denti, a un’operazione all’anca, a un processo per omicidio e a tre mogli”
Barney è un produttore televisivo di origine ebraica che vive a Montreal e che tutti vogliono dipingere nella veste facile dell’affarista senza scrupoli; frequenta scrittori, artisti, intellettuali, snob di ogni risma col piglio di chi resta fuori dalla cricca e, beffardo, li guarda e ride, benché intimamente sia persuaso di essere affratellato, per meschinità e piccolezza, a tutti loro, superiore solo nell’ autoironia, arma micidiale che permette all’uomo di essere più grande della propria vanità. 
Il romanzo di Richler è diviso in tre capitoli, uno per ogni moglie di Barney, ripercorre fra balzi temporali, anticipazioni e digressioni, la vita del protagonista e si conclude con un poscritto di Michael Panofsky, il figlio maggiore. Segue un glossario Yiddish. 
La prima moglie, Clara, l’artista, rappresenta la parentesi bohèmien, Parigi, la soffitta, gli stenti, l’arte di arrangiarsi.
La Seconda Signora Panofsky resta senza nome. È l’angustia spocchiosa della vita borghese e anche il momento di massima caduta. Lo sprofondo. 
La terza moglie è Miriam, di fatto l’unica. Virata elegiaca di un romanzo pungente ed esilarante. Barney insegue il sogno impossibile di invecchiare con lei, come novelli Filemone e Bauci, ma Miriam lo ha lasciato dopo venti anni e tre figli. Barney sopporta il suo nuovo compagno -grigio burocrate senza difetti-  come si sopporta un tafano e intanto passa in rassegna gli errori commessi, tanti in effetti, e non si rassegna. A me ricorda questi versi della Divina Commedia “Quando si parte il gioco de la zara, colui che perde si riman dolente, repetendo le volte, e tristo impara; con l'altro se ne va tutta la gente; [2]e mi fa pena. L’uomo-Barney è fragile, ma ce ne accorgiamo a tratti. Il tempo di uno stordimento e poi si ritorna allo sproloquio, alla materia bruta in cui sporcarsi le mani, al cazzo cazzo cazzo, alle lettere anonime mandate per farsi beffa di ipocriti e sciacalli, alla quotidiana lotta con la memoria.
, perché la versione di Barney non è solo un’apologia di se stesso, è prima di tutto l’epica lotta contro la memoria che si sfalda e porta via con sé il suono delle parole, le coordinate delle cose, dei concetti, del mondo, la storia, l’identità, l’ovvietà degli oggetti, la concretezza del qui ed ora. E se sotto le gambe di Barney Panofsky sta per spalancarsi un abisso, il lettore se ne accorge appena o tenta con forza di ignorarne gli indizi, perché la valanga del racconto lo travolge e la grandezza del personaggio basta a catturare tutta la sua attenzione, a richiedere una risata che esorcizzi qualsivoglia inevitabile malinconia.
Versione cinematografica, più edulcorata e meno Yiddish del romanzo
Zoom
Nei romanzi in cui manca l’ironia, io mi sento a disagio. Qui ce ne sono tonnellate, e di qualità finissima.
Sulle riviste letterarie non si fa che leggere di scrittori ingiustamente dimenticati, ma mai una sillaba per quelli giustamente dimenticati, gli imbrattacarte sempre pronti a esibire i propri titoli- insomma, i tipi à la Tierry McIver.” molte, come questa, sono le pagine in cui Mordecai Richler, per bocca di Barney, fa le pulci agli intellettuali, specie a quelli della Nomenklatura, alla casta, per usare una parola che oggi piace di più alla gente. Benché il romanzo sia ambientato in Canada, la spocchia è universale, si riconoscono invidie incrociate, manie, isteria, in una nuova sfilata di imbecilli che  piacerebbe a Parini.Non sto affatto dicendo che Shelley è un analfabeta. Al contrario, nell’ambiente passa per un vunderkind. Se gli avessi nominato Batman, Wonder Woman o l’Uomo Invisibile mi avrebbe lanciato uno sguardo di intesa con l’aria di dire «be’, tra gente di buone letture ci si capisce al volo.»  i giovani d’oggi. Cristo santo.”






[1] Le parentesi quadre indicano passaggi, in seguito, soppressi per mancanza di spazio
[2]Dante Alighieri, Div. Comm. Pg, VI 1-4

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