La lettura contiene in sé storie diverse. Non solo quelle che racconta l'autore, ma anche quelle del lettore che incontra il libro e ne fa esperienza. Italo Calvino ha celebrato questo incontro in un romanzo molto amato - Se una notte d'inverno un viaggiatore -rendendo protagonisti un Lettore appassionato, una Lettrice sfuggente e il bisogno compulsivo della lettura. Ho deciso, perciò, di farmi io stesa protagonista-Lettrice e di raccontare la mia esperienza con Il tamburo di latta prima di recensirlo come faccio di solito. Considerate questo post un antefatto. La personalizzazione di un classico controverso, che non tutti hanno apprezzato.
In realtà, mi piacerebbe estendere la conversazione e -la butto là- conoscere le vostre storie di Lettura e di Lettori, non necessariamente di questo romanzo: un racconto breve, magari, o solo qualche battuta, sull'incontro con un libro, speciale o ordinario, molto amato o contestato o difficile da reperire o regalatovi, qualunque cosa vi abbia mosso pensieri, critiche, rivoluzioni. O anche solo sforzo fisico (caratteri impossibili, pagine intonse, edizioni scompaginate ecc.)
Storia di una lettura sofferta[1]
In realtà, mi piacerebbe estendere la conversazione e -la butto là- conoscere le vostre storie di Lettura e di Lettori, non necessariamente di questo romanzo: un racconto breve, magari, o solo qualche battuta, sull'incontro con un libro, speciale o ordinario, molto amato o contestato o difficile da reperire o regalatovi, qualunque cosa vi abbia mosso pensieri, critiche, rivoluzioni. O anche solo sforzo fisico (caratteri impossibili, pagine intonse, edizioni scompaginate ecc.)
Storia di una lettura sofferta[1]
Il mio primo incontro con Il
tamburo di latta di Günter Grass
risale all’inverno 2003 ed è stato un incontro fortuito.
All’epoca, la Repubblica e il Corriere della Sera proponevano ai loro
lettori, come supplemento settimanale, due serie distinte di romanzi
novecenteschi, entrambe dedicate agli autori contemporanei. Il Corriere
puntava sulle nuove generazioni, la Repubblica su quei titoli
che potevano già definirsi classici. Nella mia città non c’era bisogno
di prenotare i volumi in anticipo, i giornalai erano ancora sufficientemente incoscienti
(e forse pochi erano pure i controlli da parte delle testate!) e riuscivano a
vendere tutte le copie che ordinavano indipendentemente dal quotidiano cui
erano associati e, quindi, anche a distanza di settimane dall’uscita. Molti di
loro avevano persino allestito un piccolo reparto libri all’interno
dell'edicola dove, finalmente, si poteva trovare qualcosa di meno deprimente che la
melassa di Harmony e affini. Questa comune infrazione alle regole di vendita
degli allegati permetteva agli acquirenti occasionali di poter scegliere cosa comprare
e quanto, a prezzi bassi. Non era corretto verso le librerie ufficiali, lo so, ma a 23
anni non ci pensavo, incosciente e a tasche vuote come ero. Volevo leggere tanto, tuttavia ero ancora una studentessa e le spese - comprese quelle per la lettura - andavano centellinate.
In quei giorni studiavo Storia Contemporanea, uscivo poco:
si trattava di un esame impegnativo, il penultimo, lontano dalla mio curriculum classico,
eppure capace di tenermi lontana da qualunque svago e di assorbire tutta la mia attenzione. Il Novecento mi appariva affascinante,
crudele e sfibrante. Mi spostavo senza sosta dall’Europa alla Cambogia, dall’Africa
post-coloniale alla cortina di ferro e, intanto, sentivo il bisogno di evadere.
Come? - Mi ci voleva una lettura fresca e
leggera.
Mi accorsi che il Corriere in quei giorni aveva proposto in allegato un
romanzo di Andrea De Carlo - Due di due? Boh- autore che non conoscevo ancora e di cui avevo
ascoltato pareri entusiasti; chiesi pertanto a mia madre, in procinto di uscire
per la spesa, di passare in edicola a comprarlo. Specificai titolo, autore,
testata giornalistica.
Forse mi spiegai male. Forse le copie del Corriere erano terminate e, con
esse, anche quelle del supplemento. Forse ci fu dolo, da parte di mia madre. Forse
era destino. Di fatto, mi ritrovai a casa con un corposo romanzo dalla sovra-copertina celeste. Evviva, pensai, libro lungo, lungo passatempo. Ma quale
sorpresa fu constatare che il quotidiano acquistato era la Repubblica e il romanzo,
Il tamburo di latta… non certo di Andrea
De Carlo!
Chi fosse Günter Grass lo ignoravo,
premio Nobel compreso. Avanzai qualche debole protesta per l’equivoco, ma durò
poco. Incominciai la lettura. E capii che non era poca cosa. Che non era un
passatempo. Che non era un’evasione dal Novecento terribile e sanguinoso,
piuttosto una colata a picco.
Eccola, la parabola della Germania in fiamme, della guerra efferata,
dello sterminio, della borghesia colpevole, dell’arte venduta al potere, della
decadenza irreversibile della società post-bellica! Altro che lettura fresca e
leggera, il materiale scottava.
E mi perdoni De Carlo, Günter Grass l’ho amato.
Nell’aprile del 2005, quando il Presidio del Libro della mia città, oltre
ad organizzare incontri con l’autore, lasciava spazio agli incontri coi lettori
(lettori comuni a cui si dava facoltà illimitata di scelta ) volli presentare
proprio questo romanzo. Mi sembrava di averlo odiato e invece lo ricordavo,
passo a passo. E volevo condividerlo. Mi apparteneva profondamente.
Dipinti, musica, lettura distorta (la vergogna non mi apparteneva
proprio) non mi feci mancare nulla nella presentazione. Volevo che passasse l’idea
dell’eccesso. Mi spiace non avere, oggi, né un video, né una foto, né la presentazione
in Ppt che realizzai per l’evento.
Se è vero che un libro è parte di
una rete, è un grappolo di concetti che si tengono insieme, io al Tamburo di
Latta associai l’Espressionismo più esasperato, Otto Dix e i suoi orrori della
guerra, la musica dodecafonica di Schömberg e Webern o i timpani spettrali
della Prima Sinfonia di Mahler. E poi un figlio dell’irrazionale come Rasputin,
la dolente malinconia della musica Yiddish e quel tanto di Freud che serve come
capro espiatorio da votare alla parodia.
Al film (di Volker Schlöndorff del 1979) ci sono arrivata tardi, due anni
fa e per gentile, quanto inattesa, concessione di un collega che ne aveva
reperito il DVD, quasi introvabile, in un negozio specializzato in vecchi film.
Ovviamente, il film mi ha deluso. Una sintesi estrema, comprensibile, ma più infeltrita
delle mie infeltrite. Il vizio che non perdonavo al film è forse, tuttavia, che
non ha saputo replicare lo stupore provato leggendo il “De Carlo mancato”, quel
romanzo piombatomi in casa per errore (o
forse con lo scopo di tenermi impegnata per più tempo, come ebbe a confessare
mia madre che preferì comprare, a parità di prezzo, il libro con più pagine)
ma più grande, più eccentrico, più complesso delle mie aspettative e forse
delle mie competenze di lettrice di allora.
Ho deciso di raccontare questa storia prima di elaborare una recensione
vera e propria perché esistono, per ogni lettore, letture speciali che segnano una
maturazione. Sono letture difficili, che si vorrebbe abbandonare a metà, che
turbano, ma che in fondo ci sfidano e ci mettono in discussione. Così sono
diventata una lettrice adulta. Il tamburo di latta è ancora oggi, per me, lo
specchio del Novecento. È la storia deformata, disarmonica, gridata, negata,
immaginata, schizzata, più vera dell’esame sostenuto, delle fotografie di
repertorio, della storiografia scientifica rigorosa e fredda.
- Una storia che scotta.
Otto Dix, At the mirror, 1921 |
Incipit
“Non lo nego: sono ricoverato in manicomio; il mio infermiere mi osserva
di continuo, quasi non mi toglie gli occhi di dosso perché nella porta c’è uno
spioncino, e lo sguardo del mio infermiere non può penetrarmi poiché lui ha gli
occhi bruni, mentre i miei sono celesti..
Il mio infermiere non può dunque essermi nemico. Ho preso a volergli
bene, a questo controllore appostato dietro lo spioncino. Appena mi entra nella
stanza, gli racconto vicende della mia vita; così, nonostante lo spioncino che
gli è d’ostacolo, impara a conoscermi”
Per la recensione appuntamento al post successivo!!
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