Ieri su Twitter, sotto l’hashtag
#recensione, @CasaLettori proponeva di sintetizzare e interpretare un libro in
140 caratteri: occasione servita su un piatto d’argento, se si considera che il
mio unico account presente su Twitter, recensioninfeltrite@russoprof, molto
prima della nascita di questo blog, era stato concepito all’uopo, e che il nome
stesso di INFELTRITA è stato figlio della scelta di ridurre, rimpicciolire più o meno maldestramente recensioni e affini.
Dovendo individuare qualche libro
da proporre all’allettante gioco di scrittura ho pensato a tre romanzi che
ancora non avevo recensito e che, tuttavia, mi rappresentavano bene come
lettrice. La versione di Barney, Il
tamburo di latta e 1Q84.
Rispettivamente, i tweet elaborati
per ciascuno sono i seguenti:
- La versione di
Barney: apologia di Panofsky-canglia, tragicomica battaglia della memoria
contro la perdita, l'oblio
- ll tamburo di
latta di Günter Grass. [concerto dodecafonico] [1]
Espressionismo che stride sugli orrori del secolo breve, sulla Germania
[Polonia] in fiamme
- Aomame e Tengo, due mondi, due lune, una sinfonietta. #1Q84, anime a tinte fosche - e l'inquietudine [che]ci assedia.
Comincio oggi con La versione di Barney del
canadese Mordecai Richler (1931-2001), GLI ADELPHI 267, l’ultimo che ho letto, in
ordine di tempo.
Lo
consiglio perché non si può fare a meno di Barney Panofsky, un personaggio -
canaglia che mi fa pensare a Cecco Angiolieri, ai clerici vagantes e, per strani giri, anche ad Archiloco e
Ipponatte.
Incipit
“Tutta colpa di Terry. È lui
il mio sassolino nella scarpa. E se proprio devo essere sincero, è per
togliermelo che ho deciso di cacciarmi in questo casino, cioè di raccontare la
vera storia della mia vita dissipata. Fra l’altro mettendomi a scribacchiare un
libro alla mia veneranda età violo un giuramento solenne, ma non posso non
farlo. Non posso lasciare senza risposta le volgari insinuazioni che nella sua
imminente biografia Terry McIver avanza su di me, le mie tre mogli (o come dice
lui la troika di Panofsky), la natura della mia amicizia con Boogie e,
ovviamente, lo scandalo che mi porterò fin nella tomba.”
L’infeltrita.
Chi è
Barney Panofsky?
È un
agglomerato di difetti portati con orgoglio, come fossero medaglie al merito.
Ricco da fare schifo, capriccioso, sospettato di omicidio, detestato - a torto
o a ragione - da molti, oggetto di invidia, capro espiatorio, turpiloquio
vivente, concentrato di umorismo ebraico, vecchio goliardico mai cresciuto, politicamente scorretto. L’aggettivo
che meglio definisce Barney è shmuk
che, in lingua Yiddish, non è
esattamente un complimento da gran signori, anzi diciamo che nella sua forma
più edulcorata potrebbe significare imbecille,
carogna, ma se parlassimo in latino
sarebbe il mentula catulliano,
epiteto derivato dall’organo genitale maschile, in italiano facilmente
traducibile e, per di più, in diverse varianti. Dice di se stesso: “Sono sopravvissuto alla scarlattina, agli
orecchioni, a due rapine a mano armata, alle piattole, all’estrazione di tutti
i denti, a un’operazione all’anca, a un processo per omicidio e a tre mogli”
Barney
è un produttore televisivo di origine ebraica che vive a Montreal e che tutti vogliono
dipingere nella veste facile dell’affarista senza scrupoli; frequenta
scrittori, artisti, intellettuali, snob di ogni risma col piglio di chi resta
fuori dalla cricca e, beffardo, li guarda e ride, benché intimamente sia persuaso
di essere affratellato, per meschinità e piccolezza, a tutti loro, superiore
solo nell’ autoironia, arma micidiale che permette all’uomo di essere più
grande della propria vanità.
Il
romanzo di Richler è diviso in tre capitoli, uno per ogni moglie di Barney,
ripercorre fra balzi temporali, anticipazioni e digressioni, la vita del
protagonista e si conclude con un poscritto di Michael Panofsky, il figlio
maggiore. Segue un glossario Yiddish.
La
prima moglie, Clara, l’artista, rappresenta la parentesi bohèmien, Parigi, la
soffitta, gli stenti, l’arte di arrangiarsi.
La Seconda Signora Panofsky resta
senza nome. È l’angustia spocchiosa della vita borghese e anche il momento di
massima caduta. Lo sprofondo.
La terza moglie è Miriam, di fatto l’unica. Virata
elegiaca di un romanzo pungente ed esilarante. Barney insegue il sogno
impossibile di invecchiare con lei, come novelli Filemone e Bauci, ma
Miriam lo ha lasciato dopo venti anni e tre figli. Barney sopporta il suo nuovo
compagno -grigio burocrate senza difetti- come si sopporta un tafano e intanto passa in
rassegna gli errori commessi, tanti in effetti, e non si rassegna. A me ricorda
questi versi della Divina Commedia “Quando si
parte il gioco de la zara, colui che perde si riman dolente, repetendo
le volte, e tristo impara; con l'altro se ne va tutta la gente; [2]” e mi fa pena. L’uomo-Barney è fragile, ma ce ne accorgiamo
a tratti. Il tempo di uno stordimento e poi si ritorna allo sproloquio, alla
materia bruta in cui sporcarsi le mani, al cazzo
cazzo cazzo, alle lettere anonime mandate per
farsi beffa di ipocriti e sciacalli, alla quotidiana lotta con la memoria.
Sì, perché la versione di Barney non è solo un’apologia di se stesso, è
prima di tutto l’epica lotta contro la memoria che si sfalda e porta via con sé
il suono delle parole, le coordinate delle cose, dei concetti, del mondo, la
storia, l’identità, l’ovvietà degli oggetti, la concretezza del qui ed ora.
E se sotto le gambe di Barney Panofsky sta per spalancarsi un abisso, il
lettore se ne accorge appena o tenta con forza di ignorarne gli indizi, perché
la valanga del racconto lo travolge e la grandezza del personaggio basta a catturare
tutta la sua attenzione, a richiedere una risata che esorcizzi qualsivoglia inevitabile
malinconia.
Versione cinematografica, più edulcorata e meno Yiddish del romanzo |
Zoom
Nei romanzi in cui manca
l’ironia, io mi sento a disagio. Qui ce ne sono tonnellate, e di qualità
finissima.
“Sulle
riviste letterarie non si fa che leggere di scrittori ingiustamente
dimenticati, ma mai una sillaba per quelli giustamente
dimenticati, gli imbrattacarte sempre pronti a esibire i propri titoli-
insomma, i tipi à la Tierry McIver.” molte, come questa, sono le pagine in cui Mordecai Richler,
per bocca di Barney, fa le pulci agli intellettuali, specie a quelli della Nomenklatura,
alla casta, per usare una parola che oggi piace di più alla gente. Benché il
romanzo sia ambientato in Canada, la spocchia è universale, si riconoscono
invidie incrociate, manie, isteria, in una nuova sfilata di imbecilli che
piacerebbe a Parini.
“Non sto affatto dicendo che Shelley è un analfabeta. Al contrario,
nell’ambiente passa per un vunderkind.
Se gli avessi nominato Batman, Wonder Woman o l’Uomo Invisibile mi avrebbe
lanciato uno sguardo di intesa con l’aria di dire «be’, tra gente di buone
letture ci si capisce al volo.» i
giovani d’oggi. Cristo santo.”
[1] Le parentesi quadre
indicano passaggi, in seguito, soppressi per mancanza di spazio
[2]Dante Alighieri, Div. Comm. Pg, VI 1-4
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