C’è sempre la prima volta.
A Maigret ci sono arrivata tardi. Un po’ come a tutti i
giallisti nostrani (Camilleri, Malvaldi, De Giovanni). Il problema era uccidere
il fantasma di Agatha Christie che incombeva
su di me con le sue carte da parati, la petulante Miss Marple e la
bombetta di Poirot. Tazze da tè e maggiordomi a profusione, no grazie! Ne avevo
letti a pacchi quando avevo dodici anni, gareggiando con l’allora amica di
penna, Barbara, occhialuta rampolla di una famiglia della Torino bene. Vinceva
sempre. Nell’intervallo tra una lettera e l’altra, per quanti sforzi impiegassi
nell’emularla, per quanta furia mettessi nelle mie letture appassionate, non
riuscivo a tenerle dietro, lei finiva due o tre romanzi in più rispetto a me
e ne parlava con dovizia di particolari, e sempre mi pareva che i suoi fossero
più belli, più difficili, più interessanti dei miei.
L’indigestione, per quel che mi riguarda, è avvenuta poco
dopo, ed è stata definitiva. La scoperta di un classico, Il Gattopardo, e subito mi sono sbarazzata della Christie e, con
lei, di qualsivoglia desiderio di leggere altri gialli. Avevo scoperto un altro
modo di fare letteratura. Forse, avevo scoperto la letteratura. Essa aveva a che
fare con orizzonti più vasti e con meccanismi meno seriali, con voli e cadute,
con una complessità che non è solo trama,
ma interpretazione, attribuzione di senso. E non sentivo più il
bisogno di gareggiare.
In una parola, assuefazione.
Per molto tempo ho associato al giallo una scrittura piena
di dettagli esteriori, macchinosa, infinitamente ripetitiva nelle sue continue
varianti, decisamente incolore e improvvisamente incapace di soddisfare il mio
bisogno di profondo, di riconoscermi in un passaggio o, al contrario, di
straniarmi completamente di fronte al dettaglio spiazzante. Chiedevo a un libro
un minimo sindacale di stupore, ma, nei gialli di Agatha Christie, al più,
capitava che mi sentissi confusa e appesantita. Troppi personaggi, troppe
giravolte, troppe aspettative per un finale ingegnoso e freddo.
La svolta? Un caso. Un regalo, quattro racconti sul commissario Maigret ormai in pensione
(Assassinio all’Ètoile du Nord, ed. Adelphi, ovviamente). Insomma, partivo dalla fine, dal punto di arrivo, eppure
c’era sapore di rivoluzione. Il distillato di Maigret ha funzionato, mi sono
subito ubriacata. E così, ho conosciuto Simenon a trentadue anni.
C’è sempre
una prima volta.
Sono tornata a leggere gialli dopo un’infinità di tempo, a
studi terminati, con un palato più esigente e un bagaglio di letture più ricco. E quello che ho trovato non è stato Agatha Christie.
Cosa fa la differenza?
Tazze da tè e
domestici, morti ammazzati e indagini c’erano ancora tutti, ma la penna di Simenon
passava sulla prosaicità del giallo con l’eleganza e la leggerezza del poeta,
al punto da farmi dimenticare la meschinità della trama, l’artificioso
aggrovigliarsi degli indizi, la banalità puntuale del morto e del suo
assassino. Sentivo la pioggia di Parigi, il borbottio della stufa di ghisa, gli
odori delle zuppe, lo scrosciare dei canali, il trapestio dei passi sulle
strade, lo scivolare delle sete fra le gambe delle signore. E tutti questi
dettagli non avevano lo spessore di una carta da parati, non erano una quinta
che facilmente puoi strappare tanto è posticcia, assumevano, piuttosto, fra le
righe, il peso dei mattoni, saturando di senso la pagina e costruendo, sotto i
miei occhi di lettrice, ancora un po’ scettica, la città, l’hotel, il boulevard.
La differenza tra Christie e Simenon è nello sguardo.
Simenon osserva il mondo con gli occhi di un uomo che guarda
i suoi simili con pietà, li fissa nelle pose che più solennemente li fanno umani
- e tuttavia li coglie nell’attimo di un quasi impercettibile stupore. C’è il
fascino dei dagherrotipi nei suoi scatti, lo stordimento, come dopo la detonazione
di un vecchio flash. Esempio:
“La vide ancora un istante
nello spiraglio dell’uscio, ed ebbe la sensazione di lasciarla smarrita, dopo
averla colta di sorpresa in casa propria, nel tepore della villa.
E c’erano altri
indizi, tenui, indefinibili,ma densi d’angoscia, negli occhi della giovane
madre che chiudeva la porta.” (da Pietr il Lettone
di Yasmina Melaouah )
Georges Simenon, I Maigret vol. 1 ADELPHI |
I capitoli si chiudono con tocchi brevi e intensi, pennellate
veloci, ombre. Su questi chiaroscuri si innesta la suspance, che non scaturisce da colpi di scena eclatanti e attesi,
ma da indizi vaghi e torbidi, che provengono dall’espressone rubata a un volto,
da uno stato d’animo, dalle mille forme che assume l’inquietudine nei mezzi toni
di un dialogo o nei gesti non controllati.
La Christie è una fotocamera digitale, una videocamera a
circuito interno, che prende tutto a strascico, senza sonoro e senza sfumature.
Vestiti, stoffe, arredi, dimensioni, consistenze, ritratti. Una completezza che
nulla aggiunge, che non lascia risonanze e rende superflua la nostra immaginazione.
La morte nei libri di Agatha Christie è un diversivo che solletica
l’intelligenza di qualcuno. È espressione di arguzia, di due intelligenze fini
e contrapposte che si fronteggiano e a cui il lettore non riesce a stare
dietro, se non a prezzo di estenuanti acrobazie mentali, perlopiù errate.
La morte per Simenon non è un gioco, è uno strappo doloroso.
È la vita nel suo multiforme spettacolo che bruscamente s’interrompe e lascia
in sospeso le storie non vissute, le azioni che non si sono potute compiere
fino in fondo. Maigret porta con sé il peso del tragico e la stanchezza di chi
scava nell’animo e sa di trovarci baratri di miseria e fragilità, sogni
infranti, debolezze, voli troppo arditi e destinati allo schianto.
Su tutti i personaggi si posa una
dignità letteraria, una forma di rispetto. Il lettore non ha la sensazione che essi,
anche quando secondari, siano messi lì per creare confusione, per depistarlo
nelle sue congetture, per animare uno schema atteso.
Essi sono parte di una coralità
che racconta le mille sfumature dell’umano. Importanti quanto la vittima, l’assassino,
il commissario. I personaggi femminili, in particolare, sono ipnotici. La
sensualità inquieta delle donne che si affacciano nei romanzi di Simenon fa da
contrappunto alla presenza discreta della moglie di Maigret, collocata nello
spazio buono della casa, al riparo dalle angosce del mondo esterno, in un
recinto esclusivo dove la macchina narrativa si ferma, in attesa di un’altra
avventura.
Zoom:
“C'era tutto Maigret nello sguardo
ch'egli fece pesare su di lei! Una calma! Un'indifferenza! Come se avesse udito
solo il ronzare di una mosca! Come se avesse avuto davanti a sé un oggetto
qualsiasi. Nessuno l'aveva mai guardata in quel modo. Si morse le labbra,
arrossì violentemente sotto il fondotinta e batté il piede con impazienza. Lui
continuava a fissarla. Allora, esasperata, o forse non sapendo cos'altro fare,
ebbe una crisi di nervi.” (da Pietr
il Lettone trad. di Yasmina Melaouah)
Ecco una fotografia che mi spiazza
nella sua virata finale, perché fulminante e inattesa.
Non c’è nient’altro da dire e
questo è sufficiente.
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