Acquisto un noir di origine scandinava. Il pipistrello di Jo
Nesbø. Meccanismi istintivi generati dall’immaginazione, da associazioni spontanee,
da pregiudizi geografici di matrice deterministica (..e già!) proiettano
nella mia mente aspettative ben precise: atmosfere cupe, umido, notturni gelidi
e inquietanti, grotte, paesaggi settentrionali sublimi e tremendi insieme, personaggi
freddi più che spietati, figure algide, inquietudine quanto basta. Il Grande
Nord, i fiordi, gli inverni senza fine.
Semplificando: pipistrello più Norvegia più assassino uguale
romanzo gotico. Noir, nero, buio pesto.
E casco male, anzi malissimo.
Perché mi ritrovo in Australia!
Già dalle prime righe mi accorgo che le 412 pagine di Nesbø mi
trascineranno, mio malgrado, per spiagge affollate di una Sidney tentacolare,
tra surfisti unti e bisunti col naso e la bocca sbiancati da creme solari,
spacciatori nerboruti, hippie invecchiati (male), aborigeni sradicati,
prostitute, spogliarelliste, night club, pestaggi, sbronze, battute da telefilm,
lottatori professionisti, clown omosessuali e Drag Queen. Paesaggi assolati e
dilatati. Un’estate senza fine, dove un serial killer colpisce indisturbato
strangolando con ferocia donne bionde, tra cui la norvegese Inger Holter.
A parte lei, l’ispettore Hole (non pronunciatelo all’inglese,
non è un buco! Si legge holi, se non
ho capito male) e la svedese Birgitta non c’è nient’altro di scandinavo.
E il lettore se lo faccia bastare.
Incipit
“C’era un problema.
Sulle prime l’addetta al controllo passaporti gli aveva
rivolto un sorriso a trentadue denti: - Come sta, mate?
- Benissimo, - aveva
mentito Harry Hole. Aveva trascorso più di trenta ore da quando era partito da
Oslo, via Londra, e fin dallo scalo nel Barhein era rimasto seduto nello stesso
maledetto sedile accanto all’uscita d’emergenza. Per motivi di sicurezza si
poteva reclinare solo di pochissimo, e ancor prima di arrivare a Singapore aveva
le reni a pezzi. E adesso neanche la donna al desk sorrideva più.”
L’Infeltrita
Attese disattese, ma la delusione si dissolve di fronte all’insieme:
una struttura solida, una storia non banale, ricchezza di motivi, personaggi
robusti - non figurine.
La narrazione, che sulle prime mi pareva poco convincente, perché
troppo solare, chiassosa, quasi sguaiata - “americanizzata” tanto per continuare con i
pregiudizi geografici! – è diventata potente e perfettamente noir a metà del romanzo, dopo circa
duecento pagine di giri e peregrinazioni australiane. È come se a un certo
punto, alla fine di un innocuo dondolio durato ore e ore, ci sia stata l’impennata
improvvisa. Attesa e disattesa. Apparsa quando disperata. L’onda vera, immensa,
splendida e micidiale.
E mi sono dimenticata delle coordinate geografiche.
Australia, Scandinavia, giorno, notte. Tutto è passato in secondo piano.
A Nesbø probabilmente non interessano le atmosfere, ma gli
eventi che risucchiano i personaggi in un gorgo, spremendoli nelle loro
fragilità di corpi abbandonati alla violenza - cieca ingiustificata complessa -
nella loro impotenza davanti al male, mentre colano a picco nell’ombra che si
portano dentro. E lo scavo psicologico, che di solito apprezzo, è superfluo. Non
detto, l’animo umano filtra dai silenzi, dagli sbandamenti, dalla sbronza
micidiale del protagonista, dagli incubi, dalle parole che rimpiangono, da
quelle che soppesano, dalla foresta cupa e fitta che emerge – improvvisa -
laddove sembravano esserci solo sentieri battuti e bene illuminati.
Il romanzo si compone di tre parti, ciascuna delle quali è
dedicata a una figura mitologica aborigena. Walla, il guerriero che vendica la
propria amata uccisa dal serpente giallo e marrone; Moora, la fanciulla più
bella della tribù uccisa dal serpente; Bubbur, il serpente. Un crescendo di
intensità nel ritmo narrativo e nel fosco del noir. Ogni parte è, a sua volta, suddivisa in capitoli, i cui nomi eccentrici
richiamano alcuni momenti della narrazione che, fuori contesto, assumono per
effetto di straniamento una patina di ironia necessaria ad alleggerire il peso
di una trama che viaggia tra assassini, drogati, sbandati, sensi di colpa
inconfessati e perciò massacranti.
Su tutti aleggia Narahdarn, il pipistrello, figura mitologica che reca la morte nel mondo.
Ho avuto bisogno di tempo per entrare nello stile di Nesbø
che non lascia troppo spazio agli orpelli, alle metafore e ai dettagli. Sulle
prime, mi disturbava una traduzione che privilegiava la resa vicina all’originale
con molti corsivi e poche italianizzazioni. La ressa dei nomi dei locali, dei
luoghi, degli animali, degli oggetti non traducibili, la mescolanza di inglese
e lingue aborigene mi confondeva, ma costituiva il tratto distintivo di una
narrazione che si gioca soprattutto sul rapporto conflittuale e irrisolto tra
inglesi/europei colonizzatori e autoctoni/aborigeni sradicati.
Siamo di fronte a una scrittura veloce, che non indugia,
piena di dialoghi serrati a cui spesso è affidato il compito di presentare i
personaggi, le situazioni, gli indizi. Gli eventi che si consumano sotto gli
occhi del lettore e quelli raccontati dai personaggi hanno già in sé gravità e
ricchezza e rendono superfluo qualunque commento. Non c’è spazio per i giudizi,
quindi. La narrazione basta a se stessa e rende descrizioni, digressioni e flashback
subordinati alla storia, al punto che il lettore accetta persino di farsi
trasportare nella mitologia, fra esseri mostruosi primordiali e giovani eroi
vendicatori, senza percepire un rallentamento nel ritmo narrativo. E alla fine
apprezza tali inserti comprendendo che il romanzo insiste proprio sul disagio
degli indigeni privati della terra, della cultura, delle radici profonde; assorbiti
dalla modernità in una integrazione falsa superficiale che di fatto li rende
ancora più avviliti e umiliati.
Scorrevole, ben strutturato, mai noioso, mai troppo cervellotico
come accade a certi gialli impossibili, “Il pipistrello” è il primo romanzo di
una serie che ha come protagonista Harry Hole, un detective dal passato tormentato
e dal carattere un po’ schivo. In Italia è stato tradotto solo quest’anno da
Eva Kampmann per Einaudi Stile Libero.
E - che altro dire?- lo
consiglio. Personalmente, tornerò a leggere di Harry prima o poi.
Zoom
Amo un personaggio, in particolare. Andrew Kensington, aborigeno,
detective misterioso e saggio, collaboratore di Harry Hole in quel di Sidney. A
lui il passaggio migliore del libro:
«Be' Harry, non
necessariamente si impiega molto tempo a conoscere i sentieri più battuti della
grande foresta buia. Alcune persone hanno delle belle strade dritte con tanto
di lampioni e di targa. Sembrano disposte a raccontarti tutto, ma è proprio in
questi casi che devi fare più attenzione a non dare le cose per scontate.
Perché non è sulle strade illuminate che trovi la vita animale della foresta,
quella la devi cercare nella macchia e nel sottobosco.
- E quanto tempo ci vuole per conoscere la vita animale?
- Dipende dalle persone. E anche dalla foresta.
Certe foreste sono più buie di altre» Di lui si sente la mancanza quando il libro si chiude. Di
lui, più che di Harry Hole - che potremo comunque ritrovare in altri episodi
della serie, quando avremo di nuovo voglia di Norvegia (!)
Andrew Kensington è l’Australia, mezza inglese mezza
indigena. Confusa. In cerca di radici. Loquace e misteriosa al contempo. Antichissima
e moderna. Spezzata.
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