“Amore mio nei vapori d’un bar
all’alba, amore mio
che inverno
lungo e che brivido
attenderti! Qua
dove il marmo nel
sangue è gelo….” (Alba, da Il passaggio di Enea)
Periodicamente si torna dove il cuore batte più forte.
La poesia di Giorgio Caproni muove da vecchie primavere. Si
confonde e sovrappone al Canzoniere di Saba con cui condivide quella che De
Robertis ha chiamato “epopea casalinga”. E di quest’aria familiare, l’aria natia, per citare un passaggio
caro a entrambi, voglio oggi impregnarmi e impregnare anche voi che mi leggete.
Storia di una lettura
È il 2006, forse febbraio, forse marzo. L’inverno sta
finendo, la primavera è nei colori delle vetrine in centro, la mia giornata è
confusa, accelerata, troppo piena, dilatata, divisa in mille scenari e scandita
da viaggi in treno e continui spostamenti. Frequento la SISS , scuola di
specializzazione per l’insegnamento secondario. A ritmi sostenuti si studia, si
frequentano lezioni, si entra in classe per il tirocinio, si raccolgono firme,
si impara (male) una professione sotto ripetuto bombardamento di input contraddittori, si afferrano,
spesso a caso, informazioni, suggestioni, consigli, ammonizioni.
In tutto questo, si colloca Giorgio Caproni e una raccolta
di poesie, un’antologia striminzita edita da Tea, nella collana Poeti del
Nostro Tempo, giunta delle mie mani per consiglio di un insegnante, non so più
dire nemmeno chi fu e perché, ricordo solo che il suggerimento non aveva
nessuna attinenza con gli esami in corso, non era parte di una bibliografia
formale, né obbligatoria né facoltativa, era solo espressione del suo gusto
personale che egli aveva voluto condividere con noi studenti in un
momento di amena divagazione.
La scoperta di Caproni nasce fuori dall’Accademia, lontano
dagli insegnamenti d’Ateneo, dai manuali di letteratura, nasce su un Regionale
stracolmo di pendolari, mentre me ne sto in piedi malamente appoggiata a un
sostegno, la borsa che penzola di lato, il libro in una mano - l’altra è
occupata!- ed è un’impresa anche solo voltare pagina. E quindi come per Cesare
Pavese (Vedi post I mari del sud. Lavorare Stanca) non aspettatevi critica letteraria o recensioni, qui sotto
troverete solo espressione di pura, personalissima passione. Che voglio
condividere, come a suo tempo, fece con me quel professore.
Il seme del piangere.
Annina…
L’edizione in mio possesso, del 1996, è preceduta da
un’introduzione di Pietro Citati ed è curata da Mario Santagostini. Ripercorre
tutte le raccolte di Caproni - compresa Res
amissa pubblicata postuma- selezionando per ciascuna alcune poesie, quasi
solo a titolo esemplificativo. Nel 1999 è stata pubblicata da Garzanti l’intera
opera del poeta in edizione critica, a cui ci si può affidare, se l’assaggio
antologico ci lascia insoddisfatti.
Perché leggo periodicamente Caproni sebbene non lo abbia mai
“studiato” a dovere?
Non è la scelta anti-novecentesca, non è la relativa
facilità dei versi, non è il rifiuto di un lessico astruso e involuto. Credo
che c’entri con le rime chiare, usuali, in –are. Con il ritmo dei frequenti
enjambement, ondivago. E soprattutto con Annina, il personaggio che anima la
raccolta de Il seme del piangere.
Annina non è semplicemente la madre del poeta, il suo
ricordo reale, ma la rievocazione di Anna Picchi-ragazza in una veste quasi leggendaria,
mitica, la ricostruzione di una gioventù livornese che Giorgio Caproni non ha
potuto vedere con i propri occhi e che non esiste più, ma che scaturisce dai
racconti di chi c’era, da vecchie fotografie, dalla pietas di chi vuole
riportare in vita uno spazio e un tempo morto, ma ancora carico di voci,
profumi e corpi.
Annina è schietta. E tale deve essere la poesia che la
rappresenta. “Rime non crepuscolari/ ma
verdi, elementari”. E suoni fini, di mare.
“Come scendeva fina/ e
giovane le scale Annina!/ Mordendosi la catenina / d’oro, usciva via/ lasciando
nel buio una scia/ di cipria che non finiva”: la prima strofa de L’uscita mattutina è così
piena di /i / che sembra cinguettare mentre si riempie della risata di Annina e
la sua presenza, vergine e schietta, s’impone con esuberanza col “tacchettio” di cui tutta la contrada
risuona. “Andava col volto franco/ (ma
cauto, e vergine, il fianco.)”
La ricamatrice Annina ha la forza poetica di altre fanciulle
che abitano le stanze della nostra memoria letteraria. È sorella di Silvia “all’opre femminili intenta” di cui
condivide la giovinezza intatta e caduca:“ Nel
sole era il cantare,/ candido, d’un canarino./ Vedevi il capo chino/ e (acre)
strappare/ coi denti la gugliata/ nuova, per ricominciare” (La ricamatrice);
ha la spensieratezza di Nausicaa che gioca con le sue ancelle prima che lo
straniero giunga a turbare la sua innocenza spumeggiante, echi omerici si
sentono nella visione moderna del poeta che osserva dalla finestra nuove
fanciulle: “ Le magre giovinette in
avvenire/ che rimbalzano la palla di gomma/ sudano delicate nel cortile/ di
cemento ove giocano…” (La palla); Annina ha più carne delle inattingibili
donne montaliane, racconta una città di provincia, si confonde con essa.
…e Livorno
Livorno ventilata, tutta riviere, solare e odorosa di mare.
Livorno “vezzeggiativa”, giovinetta tra le giovinette. Livorno, tutta
invenzione poetica.
“Anima mia, leggera/
va’ a Livorno, ti prego./ E con la tua candela/ timida, di nottetempo,/ fa’ un
giro; e se n’hai il tempo,/ perlustra e scruta/ e scrivi/ se per caso Anna
Picchi/ è ancor viva tra i vivi”. Ma Livorno è cambiata, il poeta adulto lo
sa, non per questo smette di cercare. Forse, ma non è detto, serberà il ricordo
di quel “rubino/ di sangue sul serpentino/ d’oro che lei portava/ sul petto, dove
s’appannava” (Preghiera), un ricordo che, nella poesia, ritrova tepore e
consistenza, dolcezza di carne pulsante.
Annina è andata via. Il suo congedo, Il carro di vetro che procede nel sole e non c’è pioggia
neppure allora. Nella poesia per Annina, nemmeno nella “prima mattina/ del suo non potersi svegliare” il sole manca. Per
lei le rime restano chiare. Al poeta, invece, resta un’acuta spina. Quattro
cavalli (neri) senza sonaglio. E la sveglia militare di una caserma - che non
si è accorta di cotanta assenza.
Barbaglio
Poi, le ragioni del batticuore sono sempre personali.
Si attinge alla poesia con l’occhio acuto del critico che
sminuzza, smonta e riconnette oppure con l’ingenuità del sognatore, con la
diligenza annoiata dello studente o con l’impeto romantico dell’artista che
cerca ispirazione o sfogo ai suoi furori.
Io, nella poesia, finisco sempre per cercare l’autobiografia,
la mia storia, il mio passato, me stessa.
Qui la chiave è in Barbaglio. Tre ragazze sbracciate, Annina Elettra e Ada, che profumano la
strada. Le guardano i giovani in mezze maniche. Il petto, in boccio, che grida
per dispetto.
Ecco il senso, mi dico.
Rievoco io pure Annina e le sue sorelle, Annina Emilia e Ada. Dal fondo di ricordi, manipolati
e coltivati collettivamente dalla mia epopea familiare, ritrovo mia nonna -
Anna - e la sua gioventù gigantesca, innocente e maliziosa. Lontana e mitica
anche lei, che quasi non ho conosciuto. La sovrappongo ad Anna Picchi e carico
la poesia di coincidenze solo mie.
Faccio mio l’affetto che fu di Caproni, la nostalgia, il
rimpianto di una giovinezza d’altri tempi - tempi chiari e schietti.
Che sia questa l’universalità della poesia di cui tutti
parlano?
La bizzarra corrispondenza biografica, partendo da Il seme del piangere, mi ha fatto
conoscere l’intero Caproni, magari in un modo poco usuale, poco ortodosso, ma
con la devozione di chi non rinuncia all’identificazione quando legge e per
questo legge con più forza.
Giorgio Caproni è un poeta che in quinto liceo non si
studia, in genere. Forse lo si legge al volo, a braccetto con Vittorio Sereni.
Peccato.
Fra tante tesine sul male di vivere e sulla crisi d’identità sarebbe
una ventata di freschezza, uno sguardo di mare, una risata carnale di donne al
sole.
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