Il signore delle mosche di William Golding mi ha fatto compagnia in un ferragosto ventoso, non troppo caldo, trascorso sulla costa ionica della Calabria, tra il Golfo di Trebisacce e la Piana di Sibari.
Oggi non voglio presentarvi una recensione vera e propria - ragionata - piuttosto impressioni di lettura, moti d'animo in subbuglio.
Sono arrivata tardi a questo classico che da molti è
reputato fondamentale, uno di quei cento libri che Piero Dorfles ritiene
necessari ad arricchire la nostra vita[1]e che
in più occasioni ha citato con lo sguardo di chi conserva lo stupore ricavato dalla
prima lettura. E un'intensa commozione che solo adesso capisco.
Ci sono arrivata nutrendo aspettative molto alte, ben
sapendo che avevo lungamente rimandato l’incontro con Golding per diversi motivi,
tutti assai poco razionali. Del resto, quando scelgo un libro da comprare la
ragione ha sempre scarso peso. La resistenza in questo caso era dovuta al
rifiuto del genere, “il romanzo a tesi” “l’utopia negativa”, perché temevo che
l’istanza argomentativa, la spinta a dimostrare, offuscasse l’innocenza della narrazione, e dell’ambientazione, l’isola deserta, la
laguna paradisiaca, perché temevo di dovermi imbattere in un sequel di Robinson Crusoe, classico
scansato sistematicamente durante l’infanzia e letto senza troppa convinzione
negli anni di università.
Temevo che l’ambiente angusto di un’isola sperduta nel Pacifico
potesse prestarsi a una sorta di ripetitività descrittiva, e mi sbagliavo. Anche
se l’interesse prioritario per Golding è l’analisi delle dinamiche di
gruppo, immediatamente il lettore si ritrova immerso e perduto in una “visione di rosso e
di giallo”, tra le ombre verdi della giungla, i miraggi del sole accecante nel
mezzogiorno, fra gli orrori tenebrosi della notte e nell’azzurro specchiato
della natura. Una deflagrazione di colori che non cessa di svelare angoli
sempre nuovi di un ambiente paradisiaco e selvaggio, generoso nel suo rigoglio
naturale ma al tempo spesso opprimente e misterioso.
La trama. Un aereo cade su di un’isola deserta. Sopravvive solo un gruppo
di ragazzini che dovranno organizzarsi da soli, senza adulti, per sopravvivere.
Come va a finire secondo voi?
Incipit
“Il ragazzo dai capelli biondi si calò giù per l’ultimo
tratto di roccia e cominciò a farsi strada verso la laguna. Benché si fosse
tolto la maglia della scuola. che ora gli penzolava da una mano, la
camicia grigia gli stava appiccicata
addosso, e i capelli gli erano come incollati sulla fronte. Tutt’intorno a lui
il lungo solco scavato nella giungla era un bagno di vapore. Procedeva a fatica
tra le piante rampicanti e i tronchi spezzati, quando un uccello, una visione
di rosso e di giallo, gli saettò davanti con un grido da strega; e un altro
grido gli fece eco:
«Ohè! Aspetta un po’!»”
L’Infeltrita
Il signore delle mosche di William Golding è un romanzo che ogni
insegnante dovrebbe leggere prima di entrare in classe. O se mai si sognasse di
uscire dalla classe per non tornare abbastanza presto.
È come se questo romanzo dichiarasse a grandi lettere il
valore dell’educazione e dell’educatore, dell’autorità riconosciuta e dei suoi
simboli, dimostrando quanto fragile sia nell’uomo l’equilibrio tra civiltà e
natura, e quanto poco basti perché istinti efferati offuschino la ragione e le
sue magnifiche sorti e progressive.
Che l’umana specie dia costantemente esempi di brutalità
gratuita ce lo raccontano tristemente la storia, la nostra memoria personale e
collettiva, e la cronaca più recente. Ma il romanzo di Golding è di più:
illumina a luce cruda il mondo dorato dell’infanzia e ne distrugge, dalle
radici, qualsiasi residuo d’innocenza e di bontà naturale.
Il signore delle mosche nasce da un esperimento che Golding,
in qualità di insegnante, decide di effettuare nella sua classe: divide gli
alunni in due gruppi e affida ai ragazzi un tema che si offre a tesi
contrapposte - una controversia – in modo che ciascun gruppo sostenga con le
proprie argomentazione una tesi difendendola dalla confutazione messa in atto
dall’altro gruppo; assegnato il compito, esce dall’aula lasciando agli studenti
piena libertà.
Cosa pensate che trovi al rientro in aula? Un insegnante lo sa.
La discussione degenera nel caos e nella violenza.
Gli appunti che Golding raccoglie saranno materiale da cui
fiorirà un capolavoro senza tempo - che mi ha coinvolto. Per quella
immedesimazione che non ho saputo evitare. Per quella immersione totale nel
meccanismo narrativo, micidiale e perfetto. Sino alla conclusione liberatoria -
per me grandiosa! - che tocca corde sommerse e ne tira fuori un suono acutissimo,
prepotente, una ferita lancinante e tuttavia catartica.
Mi trattengo a stento dallo spoiler - lo confesso - faccio fatica a tacere, perciò se siete
ritardatari come me, recuperate questo libro e leggetelo al più presto; se lo
avete già fatto, non fate i timidi, parliamone subito altrimenti scoppio!!
Chi si aggira oggi, con molto disincanto, nelle aule più o
meno tecnologizzate della scuola moderna, non troppo diverse da quelle, senza
LIM, in cui Golding negli anni Cinquanta
si cimentava col suo esperimento didattico - oggi lo chiameremmo “educazione
alla cittadinanza attiva”- sa che non è difficile imbattersi in ciascuno dei
personaggi che animano questo romanzo. C’è il capo carismatico, generoso,
coraggioso, prudente, a volte narcisista; c’è il prepotente livoroso; c’è il ragazzo
razionale e solitario; ci sono gli irresponsabili; c’è il grassone occhialuto
fatto a pezzi dai bulli; i gregari; il branco; amicizie dichiarate, rifiutate e
tradite; odi più o meno sotterranei; dichiarazioni di guerra; patti; simboli. L’anarchia
sempre in agguato. La classe è davvero una palestra del mondo, miniatura della
società con pregi e difetti: i miei alunni ridevano quando lo dicevo, forse non
ci credevano abbastanza, non riuscivano a vedersi dall’esterno.
L’isola di Golding è una proiezione che ingigantisce dinamiche
quotidiane piuttosto familiari. Fra adulti e bambini. È un tuffo nel
pessimismo.
Zoom
Spazio a Piggy, il ragazzo grasso di cui non nessuno sa il nome di battesimo perché inchiodato al suo nomignolo dispregiativo. Spazio ai suoi occhiali. Al buon
senso. Alla saccenza. All’asma. Alla logorrea. Al suo essere vittima in pasto
ai bulli.
È lui che costruisce il potere di Ralph, il capo, gliene
suggerisce gli strumenti (il convegno, la votazione) e persino i simboli (la conchiglia
con cui chiamare l’adunata e che garantisce il turno di parola), è lui che lo sostiene
nel declino, lo sprona, progetta piani che funzionano perché a differenza di
tutti gli altri “sa pensare”. Piggy sa che Ralph è un capo giusto, eletto
democraticamente e capace di ascoltare i buoni consigli, di riconoscere gli
errori. Se Ralph desse le dimissioni, come vorrebbe fare in un momento di
sconforto, Piggy sa che per se stesso non ci sarà più scampo. Perché è l'anello debole del
gruppo. E chi è debole, se non c’è un potere giusto, un’autorità legittima,
verrà distrutto dalla legge della giungla. Da quello stato di natura che non è
certo un paradiso perduto.
Questo l’insegnamento: la legge è nata allo scopo di mettere
fine alla barbarie. Anche se ingiusta o imperfetta o poco chiara, essa è una
conquista e ci salva. Un monito agli anarchici di ieri e di oggi. Agli incendiari.
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