mercoledì 3 settembre 2014

Settanta acrilico trenta lana di Viola Di Grado

Settanta acrilico trenta lana, esordio potente di Viola Di Grado, edizioni e/o 2011.
Oggi l’Infeltrita sembra giocare in casa. Con un romanzo che parla di stoffe, scampoli, ritagli. 
Una lettura di qualche anno fa. Del settembre 2011, per essere precisi. Un romanzo breve, 189 pagine in tutto, e piuttosto duro. La storia è, a suo modo, infeltrita. Cioè Bizzarra. Involuta. Ha a che fare con i vestiti vecchi, abbandonati nei cassonetti. E con la solitudine, l’incomunicabilità, il disagio. 
Non sempre i romanzi contemporanei hanno vita lunga, anche quando sono originali e ben scritti, perciò non so dire se Settanta acrilico trenta lana si trovi ancora facilmente nelle librerie, certo, reperirlo su internet non sarà difficile (vai). 
Intanto, ho recuperato per voi la breve recensione inviata a un sito che prometteva sconti sul futuro acquisto di libri in cambio di commenti, e ve la posto con qualche modifica. 
Benché si tratti di un romanzo cupo, che non inneggia certamente alla gioia di vivere, ha riscosso molto successo ogniqualvolta l’abbia consigliato a qualcuno.


Incipit
Un giorno era ancora dicembre. Specialmente a Leeds, dove l’inverno è cominciato da così tanto tempo che nessuno è abbastanza vecchio da aver visto cosa c’era prima. Nevicava tutto il giorno, a parte quella breve parentesi di autunno che ad agosto aveva scosso un po’ di foglie e se n’era tornata da dove era venuta, tipo la band di apertura prima della star.
A Leeds tutto ciò che non è inverno è una band di apertura che si sgola due minuti poi muore.
Infeltrita
Voce narrante è la protagonista, Camelia. Ha il nome di un fiore, proprio come l’autrice. E come l’autrice risulta affascinata dalla cultura cinese. Il titolo accattivante - e un po' spiazzante - fu ragione sufficiente per l’acquisto, lo confesso.
La vita di Camelia somiglia ai vestiti che qualcuno abbandona in un cassonetto vicino alla sua casa, c’è sempre qualcosa che non va, un elemento fuori posto e irrazionale, come una manica cucita sul petto, bottoni inutili o cuciture sghembe. È una vita “settanta acrilico tenta lana”, ossia di tessuto dozzinale, con colori improbabili e un taglio difettoso. 
Siamo a Leeds, città plumbea dell’Inghilterra settentrionale, in un inverno che non passa mai, dimensione claustrofobica che la protagonista tenta invano di forzare. L’interno della casa di Camelia fa paura, è lo specchio di una esistenza a soqquadro: una madre che fotografa buchi e non parla, il ricordo di un padre morto in compagnia dell’amante, il vuoto. Tutto vorrebbe restare fermo, ma la vita incalza. Con una storia d’amore abortita, non meno incomprensibile delle dinamiche familiari di Camelia. Con una storia di sesso altrettanto improbabile. E la solitudine di contrappunto, sostanziale. 
In questo romanzo non c’è posto per la dolcezza - che il lettore rincorre sin dalle prime pagine, quasi a cercarne consolazione, eppure struggente è la passione con cui Camelia dipinge ideogrammi cinesi, come se in essi, e nelle chiavi che li compongono, si nascondesse il segreto per decifrare la vita, che suo malgrado continua a scorrere, proponendo incontri, sciogliendo e stringendo nuovi nodi. La lettura coinvolge il lettore che non riesce affatto a prevedere sviluppi e finale.
La scrittura di Viola Di Grado somiglia a scampoli di stoffa la cui armonia è nel disordine: spesso è rotta, alcune volte abbondante e rovinosa, altre condensata e breve. Le metafore si moltiplicano e sono accattivanti per il lettore, vanno a pescare le loro analogie fra campi diversissimi, propri della cultura e della sottocultura tardo-adolescenziale, dietro di esse si intravedono la formazione e le passioni della scrittrice, i cui ventitré anni (al momento dell’esordio) mi hanno lasciato stordita. La prosa alterna descrizioni crude, - eccessive per il mio palato!- a momenti di lirismo senza affettazione.
Il romanzo di Viola Di Grado, catanese giovanissima, non ha un sapore provinciale, a differenza di molta narrativa italiana. Ci porta in uno spazio lontano, multiculturale, distorto. Ciononostante non si percepisce apertura, ariosità, dinamismo, ma solo un forte senso di chiusura, di solitudine, di soffocamento, di ripetizione. 
Non è un romanzo che ha reso più felice la mia vita, diciamolo. E non so se lo rileggerei adesso, tuttavia non ho esitato a prestarlo agli amici che lo hanno apprezzato molto per la capacità di fotografare la colata a picco di un'esistenza, senza troppi giri di parole.
Alla luce di questo, lo consiglio anche a voi. 
Aspetto i vostri commenti: perplessità, apprezzamenti, idiosincrasie. Potrebbero essercene in quantità.

Zoom

Non amo le biografie e non scriverò nulla della vita dell’autrice, benché di illustri natali. Voglio però lasciarvi osservare una sua fotografia (reperita in Rete fra tante, altrettanto belle) al tempo della pubblicazione del romanzo d’esordio. È proprio come immagino Camelia, una bambina dagli occhi tristi pregna di tutta la malinconia del mondo, bizzarra più che dark, saltata fuori da un vecchio dagherrotipo a cui si è cercato, maldestramente, di aggiungere colore. Che ne pensate?
Nel 2013 Viola Di Grado ha scritto un nuovo romanzo “Cuore cavo”,  il punto di vista di una suicida di fronte al suo corpo che lentamente si disfa. Mi incuriosisce, nonostante tutto. Sebbene prometta...  nuovi tuffi nel dolore, nel male di vivere, in un espressionismo spudorato.

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