martedì 19 agosto 2014

Il signore delle mosche di William Golding. Una visione di rosso e di giallo

Il signore delle mosche di William Golding mi ha fatto compagnia in un ferragosto ventoso, non troppo caldo, trascorso sulla costa ionica della Calabria, tra il Golfo di Trebisacce e la Piana di Sibari.
Oggi non voglio presentarvi una recensione vera e propria - ragionata - piuttosto impressioni di lettura, moti d'animo in subbuglio. 
Sono arrivata tardi a questo classico che da molti è reputato fondamentale, uno di quei cento libri che Piero Dorfles ritiene necessari ad arricchire la nostra vita[1]e che in più occasioni ha citato con lo sguardo di chi conserva lo stupore ricavato dalla prima lettura. E un'intensa commozione che solo adesso capisco.
Ci sono arrivata nutrendo aspettative molto alte, ben sapendo che avevo lungamente rimandato l’incontro con Golding per diversi motivi, tutti assai poco razionali. Del resto, quando scelgo un libro da comprare la ragione ha sempre scarso peso. La resistenza in questo caso era dovuta al rifiuto del genere, “il romanzo a tesi” “l’utopia negativa”, perché temevo che l’istanza argomentativa, la spinta a dimostrare, offuscasse l’innocenza della narrazione, e dell’ambientazione, l’isola deserta, la laguna paradisiaca, perché temevo di dovermi imbattere in un sequel di Robinson Crusoe, classico scansato sistematicamente durante l’infanzia e letto senza troppa convinzione negli anni di università.
Temevo che l’ambiente angusto di un’isola sperduta nel Pacifico potesse prestarsi a una sorta di ripetitività descrittiva, e mi sbagliavo. Anche se l’interesse prioritario per Golding è l’analisi delle dinamiche di gruppo, immediatamente il lettore si ritrova immerso e perduto in una “visione di rosso e di giallo”, tra le ombre verdi della giungla, i miraggi del sole accecante nel mezzogiorno, fra gli orrori tenebrosi della notte e nell’azzurro specchiato della natura. Una deflagrazione di colori che non cessa di svelare angoli sempre nuovi di un ambiente paradisiaco e selvaggio, generoso nel suo rigoglio naturale ma al tempo spesso opprimente e misterioso.
La trama. Un aereo cade su di un’isola deserta. Sopravvive solo un gruppo di ragazzini che dovranno organizzarsi da soli, senza adulti, per sopravvivere. Come va a finire secondo voi?
 
Il signore delle mosche, William Golding
Mondadori - classici moderni. Traduzione di Filippo Donini
Incipit
Il ragazzo dai capelli biondi si calò giù per l’ultimo tratto di roccia e cominciò a farsi strada verso la laguna. Benché si fosse tolto la maglia della scuola. che ora gli penzolava da una mano, la camicia  grigia gli stava appiccicata addosso, e i capelli gli erano come incollati sulla fronte. Tutt’intorno a lui il lungo solco scavato nella giungla era un bagno di vapore. Procedeva a fatica tra le piante rampicanti e i tronchi spezzati, quando un uccello, una visione di rosso e di giallo, gli saettò davanti con un grido da strega; e un altro grido gli fece eco:
«Ohè! Aspetta un po’!»”
L’Infeltrita
Il signore delle mosche di William Golding è un romanzo che ogni insegnante dovrebbe leggere prima di entrare in classe. O se mai si sognasse di uscire dalla classe per non tornare abbastanza presto. 
È come se questo romanzo dichiarasse a grandi lettere il valore dell’educazione e dell’educatore, dell’autorità riconosciuta e dei suoi simboli, dimostrando quanto fragile sia nell’uomo l’equilibrio tra civiltà e natura, e quanto poco basti perché istinti efferati offuschino la ragione e le sue magnifiche sorti e progressive.
Che l’umana specie dia costantemente esempi di brutalità gratuita ce lo raccontano tristemente la storia, la nostra memoria personale e collettiva, e la cronaca più recente. Ma il romanzo di Golding è di più: illumina a luce cruda il mondo dorato dell’infanzia e ne distrugge, dalle radici, qualsiasi residuo d’innocenza e di bontà naturale.
Il signore delle mosche nasce da un esperimento che Golding, in qualità di insegnante, decide di effettuare nella sua classe: divide gli alunni in due gruppi e affida ai ragazzi un tema che si offre a tesi contrapposte - una controversia – in modo che ciascun gruppo sostenga con le proprie argomentazione una tesi difendendola dalla confutazione messa in atto dall’altro gruppo; assegnato il compito, esce dall’aula lasciando agli studenti piena libertà.
Cosa pensate che trovi al rientro in aula? Un insegnante lo sa.
La discussione degenera nel caos e nella violenza.
Gli appunti che Golding raccoglie saranno materiale da cui fiorirà un capolavoro senza tempo - che mi ha coinvolto. Per quella immedesimazione che non ho saputo evitare. Per quella immersione totale nel meccanismo narrativo, micidiale e perfetto. Sino alla conclusione liberatoria - per me grandiosa! - che tocca corde sommerse e ne tira fuori un suono acutissimo, prepotente, una ferita lancinante e tuttavia catartica.  
Mi trattengo a stento dallo spoiler - lo confesso - faccio fatica a tacere, perciò se siete ritardatari come me, recuperate questo libro e leggetelo al più presto; se lo avete già fatto, non fate i timidi, parliamone subito altrimenti scoppio!!
Chi si aggira oggi, con molto disincanto, nelle aule più o meno tecnologizzate della scuola moderna, non troppo diverse da quelle, senza LIM,  in cui Golding negli anni Cinquanta si cimentava col suo esperimento didattico - oggi lo chiameremmo “educazione alla cittadinanza attiva”- sa che non è difficile imbattersi in ciascuno dei personaggi che animano questo romanzo. C’è il capo carismatico, generoso, coraggioso, prudente, a volte narcisista; c’è il prepotente livoroso; c’è il ragazzo razionale e solitario; ci sono gli irresponsabili; c’è il grassone occhialuto fatto a pezzi dai bulli; i gregari; il branco; amicizie dichiarate, rifiutate e tradite; odi più o meno sotterranei; dichiarazioni di guerra; patti; simboli. L’anarchia sempre in agguato. La classe è davvero una palestra del mondo, miniatura della società con pregi e difetti: i miei alunni ridevano quando lo dicevo, forse non ci credevano abbastanza, non riuscivano a vedersi dall’esterno.
L’isola di Golding è una proiezione che ingigantisce dinamiche quotidiane piuttosto familiari. Fra adulti e bambini. È un tuffo nel pessimismo.
Zoom
Spazio a Piggy, il ragazzo grasso di cui non nessuno sa il nome di battesimo perché inchiodato al suo nomignolo dispregiativo. Spazio ai suoi occhiali. Al buon senso. Alla saccenza. All’asma. Alla logorrea. Al suo essere vittima in pasto ai bulli.
È lui che costruisce il potere di Ralph, il capo, gliene suggerisce gli strumenti (il convegno, la votazione) e persino i simboli (la conchiglia con cui chiamare l’adunata e che garantisce il turno di parola), è lui che lo sostiene nel declino, lo sprona, progetta piani che funzionano perché a differenza di tutti gli altri “sa pensare”. Piggy sa che Ralph è un capo giusto, eletto democraticamente e capace di ascoltare i buoni consigli, di riconoscere gli errori. Se Ralph desse le dimissioni, come vorrebbe fare in un momento di sconforto, Piggy sa che per se stesso non ci sarà più scampo. Perché è l'anello debole del gruppo. E chi è debole, se non c’è un potere giusto, un’autorità legittima, verrà distrutto dalla legge della giungla. Da quello stato di natura che non è certo un paradiso perduto.
Questo l’insegnamento: la legge è nata allo scopo di mettere fine alla barbarie. Anche se ingiusta o imperfetta o poco chiara, essa è una conquista e ci salva. Un monito agli anarchici di ieri e di oggi. Agli incendiari. 








[1] I cento libri che rendono più ricca la nostra vita, Piero Dorfles – Garzanti 2014

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