giovedì 28 agosto 2014

Per lei voglio rime chiare


“Amore mio nei vapori d’un bar
all’alba, amore mio che inverno
lungo e che brivido attenderti! Qua
dove il marmo nel sangue è gelo….” (Alba, da Il passaggio di Enea)

Periodicamente si torna dove il cuore batte più forte.
La poesia di Giorgio Caproni muove da vecchie primavere. Si confonde e sovrappone al Canzoniere di Saba con cui condivide quella che De Robertis ha chiamato “epopea casalinga”. E di quest’aria familiare, l’aria natia, per citare un passaggio caro a entrambi, voglio oggi impregnarmi e impregnare anche voi che mi leggete.


Storia di una lettura
È il 2006, forse febbraio, forse marzo. L’inverno sta finendo, la primavera è nei colori delle vetrine in centro, la mia giornata è confusa, accelerata, troppo piena, dilatata, divisa in mille scenari e scandita da viaggi in treno e continui spostamenti. Frequento la SISS, scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario. A ritmi sostenuti si studia, si frequentano lezioni, si entra in classe per il tirocinio, si raccolgono firme, si impara (male) una professione sotto ripetuto bombardamento di input contraddittori, si afferrano, spesso a caso, informazioni, suggestioni, consigli, ammonizioni.
In tutto questo, si colloca Giorgio Caproni e una raccolta di poesie, un’antologia striminzita edita da Tea, nella collana Poeti del Nostro Tempo, giunta delle mie mani per consiglio di un insegnante, non so più dire nemmeno chi fu e perché, ricordo solo che il suggerimento non aveva nessuna attinenza con gli esami in corso, non era parte di una bibliografia formale, né obbligatoria né facoltativa, era solo espressione del suo gusto personale che egli aveva voluto condividere con noi studenti in un momento di amena divagazione.
La scoperta di Caproni nasce fuori dall’Accademia, lontano dagli insegnamenti d’Ateneo, dai manuali di letteratura, nasce su un Regionale stracolmo di pendolari, mentre me ne sto in piedi malamente appoggiata a un sostegno, la borsa che penzola di lato, il libro in una mano - l’altra è occupata!- ed è un’impresa anche solo voltare pagina. E quindi come per Cesare Pavese (Vedi post I mari del sud. Lavorare Stanca) non aspettatevi critica letteraria o recensioni, qui sotto troverete solo espressione di pura, personalissima passione. Che voglio condividere, come a suo tempo, fece con me quel professore.

Il seme del piangere. Annina…
L’edizione in mio possesso, del 1996, è preceduta da un’introduzione di Pietro Citati ed è curata da Mario Santagostini. Ripercorre tutte le raccolte di Caproni - compresa Res amissa pubblicata postuma- selezionando per ciascuna alcune poesie, quasi solo a titolo esemplificativo. Nel 1999 è stata pubblicata da Garzanti l’intera opera del poeta in edizione critica, a cui ci si può affidare, se l’assaggio antologico ci lascia insoddisfatti.
Perché leggo periodicamente Caproni sebbene non lo abbia mai “studiato” a dovere?
Non è la scelta anti-novecentesca, non è la relativa facilità dei versi, non è il rifiuto di un lessico astruso e involuto. Credo che c’entri con le rime chiare, usuali, in –are. Con il ritmo dei frequenti enjambement, ondivago. E soprattutto con Annina, il personaggio che anima la raccolta de Il seme del piangere.
Annina non è semplicemente la madre del poeta, il suo ricordo reale, ma la rievocazione di Anna Picchi-ragazza in una veste quasi leggendaria, mitica, la ricostruzione di una gioventù livornese che Giorgio Caproni non ha potuto vedere con i propri occhi e che non esiste più, ma che scaturisce dai racconti di chi c’era, da vecchie fotografie, dalla pietas di chi vuole riportare in vita uno spazio e un tempo morto, ma ancora carico di voci, profumi e corpi.
Annina è schietta. E tale deve essere la poesia che la rappresenta. “Rime non crepuscolari/ ma verdi, elementari”. E suoni fini, di mare.
“Come scendeva fina/ e giovane le scale Annina!/ Mordendosi la catenina / d’oro, usciva via/ lasciando nel buio una scia/ di cipria che non finiva”:  la prima strofa de L’uscita mattutina è così piena di /i / che sembra cinguettare mentre si riempie della risata di Annina e la sua presenza, vergine e schietta, s’impone con esuberanza col “tacchettio” di cui tutta la contrada risuona. “Andava col volto franco/ (ma cauto, e vergine, il fianco.)”  
La ricamatrice Annina ha la forza poetica di altre fanciulle che abitano le stanze della nostra memoria letteraria. È sorella di Silviaall’opre femminili intenta” di cui condivide la giovinezza intatta e caduca:“ Nel sole era il cantare,/ candido, d’un canarino./ Vedevi il capo chino/ e (acre) strappare/ coi denti la gugliata/ nuova, per ricominciare” (La ricamatrice); ha la spensieratezza di Nausicaa che gioca con le sue ancelle prima che lo straniero giunga a turbare la sua innocenza spumeggiante, echi omerici si sentono nella visione moderna del poeta che osserva dalla finestra nuove fanciulle: “ Le magre giovinette in avvenire/ che rimbalzano la palla di gomma/ sudano delicate nel cortile/ di cemento ove giocano…” (La palla); Annina ha più carne delle inattingibili donne montaliane, racconta una città di provincia, si confonde con essa.

…e Livorno
Livorno ventilata, tutta riviere, solare e odorosa di mare. Livorno “vezzeggiativa”, giovinetta tra le giovinette. Livorno, tutta invenzione poetica.
Anima mia, leggera/ va’ a Livorno, ti prego./ E con la tua candela/ timida, di nottetempo,/ fa’ un giro; e se n’hai il tempo,/ perlustra e scruta/ e scrivi/ se per caso Anna Picchi/ è ancor viva tra i vivi”. Ma Livorno è cambiata, il poeta adulto lo sa, non per questo smette di cercare. Forse, ma non è detto, serberà il ricordo di quel “rubino/ di sangue sul serpentino/ d’oro che lei portava/ sul petto, dove s’appannava” (Preghiera), un ricordo che, nella poesia, ritrova tepore e consistenza, dolcezza di carne pulsante.
Annina è andata via. Il suo congedo, Il carro di vetro che procede nel sole e non c’è pioggia neppure allora. Nella poesia per Annina, nemmeno nella “prima mattina/ del suo non potersi svegliare” il sole manca. Per lei le rime restano chiare. Al poeta, invece, resta un’acuta spina. Quattro cavalli (neri) senza sonaglio. E la sveglia militare di una caserma - che non si è accorta di cotanta assenza.

Barbaglio
Poi, le ragioni del batticuore sono sempre personali.
Si attinge alla poesia con l’occhio acuto del critico che sminuzza, smonta e riconnette oppure con l’ingenuità del sognatore, con la diligenza annoiata dello studente o con l’impeto romantico dell’artista che cerca ispirazione o sfogo ai suoi furori.
Io, nella poesia, finisco sempre per cercare l’autobiografia, la mia storia, il mio passato, me stessa.
Qui la chiave è in Barbaglio. Tre ragazze sbracciate, Annina Elettra e Ada, che profumano la strada. Le guardano i giovani in mezze maniche. Il petto, in boccio, che grida per dispetto.
Ecco il senso, mi dico.
Rievoco io pure Annina e le sue sorelle, Annina Emilia e Ada. Dal fondo di ricordi, manipolati e coltivati collettivamente dalla mia epopea familiare, ritrovo mia nonna - Anna - e la sua gioventù gigantesca, innocente e maliziosa. Lontana e mitica anche lei, che quasi non ho conosciuto. La sovrappongo ad Anna Picchi e carico la poesia di coincidenze solo mie.
Faccio mio l’affetto che fu di Caproni, la nostalgia, il rimpianto di una giovinezza d’altri tempi - tempi chiari e schietti.
Che sia questa l’universalità della poesia di cui tutti parlano?
La bizzarra corrispondenza biografica, partendo da Il seme del piangere, mi ha fatto conoscere l’intero Caproni, magari in un modo poco usuale, poco ortodosso, ma con la devozione di chi non rinuncia all’identificazione quando legge e per questo legge con più forza.


Giorgio Caproni è un poeta che in quinto liceo non si studia, in genere. Forse lo si legge al volo, a braccetto con Vittorio Sereni. Peccato. 
Fra tante tesine sul male di vivere e sulla crisi d’identità sarebbe una ventata di freschezza, uno sguardo di mare, una risata carnale di donne al sole. 

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