martedì 26 agosto 2014

Il pendolo di Foucault tra esoterismo e parodia

Edizione Bompiani
Che un romanzo riuscisse a spaventare, annoiare e divertire al tempo stesso non l’avrei ritenuto possibile. 
Il pendolo di Foucault lo fa. E credo che Umberto Eco abbia messo in conto tutto. La suspense, l’intrigo, il mistero, l’ironia, la parodia, il sarcasmo. E non ultimo la noia, quella che viene dalle lungaggini dottrinali, da una meticolosa ricerca di documenti, di falsi, di erudite pedanterie sapienziali che, parodia o meno, il lettore deve sorbirsi e di cui NON PUÒ fare a meno, se vuole godere del senso profondo di questo romanzo.
Non so dire esattamente quanto tempo ci abbia impiegato a leggerlo: lo associo all’inverno, a interminabili viaggi in treno fra paesaggi nebbiosi e ritardi cronici, a serate solitarie trascorse sotto una stratificazione maldestra di coperte.
Ho divorato pile di libri piacevoli, di cui ricordo a grandi linee solo la trama, li ho consumati in fretta, in pochi giorni con l’avidità compulsiva di chi è già proiettato all’acquisto successivo.
Il pendolo di Foucault non appartiene a questa categoria.
680 pagine, caratteri di stampa pro-miopia, un apparato dottrinale che non potevo espungere senza compromettere il senso del testo, un lessico, talvolta ricercatissimo, che richiedeva sovente l’“aiutino” del dizionario, una continua, faticosa, dispersione della narrazione in mille rivoli. Per terminarlo è occorsa pazienza. Quando sono giunta alla fine, all’ultimo punto e a capo, a quello definitivo, l’impresa mi è parsa eroica, ma la lettura non è passata invano. Non è di quelle che scivolano. Non è un sorbetto al limone tra un piatto forte di pesce e uno di carne. Qui siamo di fronte a un arrosto esagerato, come dire… trimalchionico!
Il secondo romanzo di Eco[1] mi ha lasciato in eredità riflessioni, domande, amarezze, ma soprattutto il desiderio di una continuazione, bisogno che, in corso d’opera, avrei ritenuto improbabile.
Dopo aver atteso la fine del romanzo con impazienza, mi sono ritrovata a rimpiangere una scrittura che non indulge a semplificazioni e sciatterie; una narrazione abbondante, lutulenta, invischiante, che difficilmente avrei ritrovato in altri autori; una narrazione caustica contro le velleità artistiche, le ingenuità imperdonabili e i narcisismi che si riconoscono nei personaggi del romanzo, e in gran parte di noi lettori. Me compresa.

Incipit
Fu allora che vidi il Pendolo.
La sfera, mobile all’estremità di un lungo filo fissato alla volta del coro, descriveva le sue ampie oscillazioni con isocrona maestà.
Io sapevo – ma chiunque avrebbe dovuto avvertire nell’incanto di quel placido respiro – che il periodo era regolato dal rapporto tra la radice quadrata della lunghezza del filo e quel numero π che, irrazionale alle menti sublunari, per divina ragione lega necessariamente la circonferenza al diametro di tutti i cerchi possibili – così che il tempo di quel vagare di una sfera dall’uno all’altro polo era effetto di una arcana cospirazione tra le più intemporali delle misure, l’unità del punto di sospensione, la dualità di una astratta dimensione, la natura ternaria di π, il tetragono segreto della radice, la perfezione del cerchio
Infeltrita
Nell’unico respiro con cui si legge questo incipit, il Pendolo si mostra già con prepotenza come simbolo di una “arcana cospirazione” che travalica i confini temporali e si perpetua nella storia, generazione dopo generazione sotto tanti nomi.
Il lettore si trova di fronte a dieci parti, a loro volta suddivise in numerosi sottocapitoli. Il numero dieci, ovviamente non casuale, ci riporta ai Sephirot della Cabala ebraica, i mezzi attraverso cui si rivela l’Eterno. Parti e capitoli sono scanditi da citazioni puntualissime che, in epigrafe, ripercorrono una sterminata bibliografia esoterica, mistica, magica, alchemica di ogni tempo. Un contrassegno di erudizione che ci confonde volutamente, ma a cui ci si deve abituare perché, in varie forme, caratterizza tutta l’opera. Un tuffo nel filone magico che la cultura occidentale, da sempre, si premura di tenere a margine, se non di occultare del tutto.
La struttura narrativa è labirintica, come una ricerca condotta in uno smisurato archivio, senza indicazioni precise. Una ricerca in cui tutto sembra importante e tutto ci allontana dal punto di partenza e da quello di arrivo. Il tempo è lento. Lo spazio disorganico, prevalentemente chiuso.
Rappresentazione dei Sephirot secondo la Cabala ebraica
Il romanzo prende le mosse dal Conservatoire des Art set Métiers di Parigi dove è conservato un esemplare del pendolo di Foucault e dove Casaubon, protagonista e narratore, si nasconde per assistere alla riunione dei Signori della Convenzione, che si terrà oltre l’ora di chiusura del museo. La tensione è subito alta. L’attesa massacrante. I Signori, qualunque cosa rappresentino, saranno pericolosi, ammantati di segretezza, decisi a portare a compimento il Piano, il Complotto Universale che muove da epoche lontane e, per vie sotterranee, si perpetua secolo dopo secolo, catturando la credulità, il bisogno di mistero, di esoterismo, di irrazionale che alberga nella gran parte degli uomini.
Tre intellettuali, Casaubon, Belbo e Diotallevi, con la complicità di una casa editrice spregiudicata, decidono, per divertimento, di gabbare quanti mostrano di credere alla Teoria del Complotto e, recuperando l’intera letteratura mistica, esoterica, occulta, iniziano a mescolare le carte, a creare messaggi in codice e segni, a ordire, a tavolino, un Piano che funga da esca per portare allo scoperto massoni, settari, individui sinistri che trascorrono la vita (agiata e oziosa) a riesumare antiche tradizioni diaboliche. Il gioco, però, si fa serio. Sembra sfuggire di mano. Perché c’è sempre qualcuno pronto a credere al piano e a servirsene per esercitare potere sugli altri. E gli stessi intellettuali sembrano a un certo punto diventare vittime della loro stessa cospirazione.
Il lettore, insieme ai tre personaggi principali resterà sospeso a mezza strada tra l’ironia più tagliente nei confronti dell’irrazionalismo, che mina di superstizione persino i settori più insospettabili della scienza, la parodia nei confronti di quella paraletteratura nutrita di templari, segreti, codici, misteri, intrighi inverosimili, l’esercizio di una scanzonata goliardia (di cui anche il lettore è vittima) e un oscuro senso di minaccia costante, di pericolo incombente, imprecisato.
E se il Complotto, sbeffeggiato e deriso, esistesse davvero? E se il segreto dei templari, catari, RosaCroce, gesuiti, anziani, illuminati e diosacosa esistesse davvero?
La corsa verso le pagine finali vede la riduzione della componente parodica e il crescendo di esperienze soprannaturali e inspiegabili.
E se l’irrazionalità trionfa, allora quale messaggio vuole inviarci l’autore?
La sua è o non è una presa di posizione contro l’irrazionalità e il misticismo superstizioso?

“Da quando gli uomini non credono più in Dio, non è che non credano più a nulla, credono a tutto”

Zoom
Mi hanno colpito considerazioni sparse qui e là che, profeticamente, precorrono i tempi e abbracciano la nostra realtà contemporanea.
§         Il romanzo è stato pubblicato nel 1988, i Personal Computer cominciavano, molto lentamente la loro ascesa e un programma di videoscrittura, come può essere il per noi arcinoto Word di Office o qualunque altro suo corrispondente, suscitava nell’autore perplessità condivisibili e un certo sarcasmo. Al punto da attribuirgli il nome di Abulafia, una parola che ha in sé l’abulia (il calcolatore è ottuso) ma anche for-faris parlare. Parlare a vanvera. Il personaggio di Belbo affida i suoi ricordi ad Abulafia, perché schermato dalla segretezza di una password si sente protetto da sguardi indiscreti; perché digitare parole sulla tastiera lo fa sentire meno a disagio che impugnando una penna. Belbo è infatti uno scrittore mancato, diciamo pure autocensuratosi. Abituato, da studioso fine qual è, ad avere a che fare con i Grandi sa di non esser degno di pubblicare qualcosa di proprio. Saggiamente (e pavidamente) non si sottopone all’umiliazione del giudizio altrui. Ma la voglia di scrivere è forte e il calcolatore, neonato, glielo consente impunemente. Peccato, che la segretezza della password (da Eco in tempi a-digitali chiamata il password, cioè il lasciapassare) venga beffata subito da Casoubon che la decripta e sbandiera tutte le velleità letterarie represse dell’amico Belbo, non senza punte di cattiveria. Abualfia come antenato del selfpublishing, come sdoganamento della scrittura, che ne pensate?
§         Se Belbo è uno scrittore castrato, tanti sono invece gli scrittori vanesii, in preda a un ingenuo narcisismo che li getta nelle fauci della Manuzio, tipico esempio di editoria a pagamento, “con fatturato altissimo e spese di gestione nulle”. Sue vittime sono gli APS. Gli Autori a Proprie Spese. Le pagine, puntualissime e minuziose, dedicate alla descrizione del funzionamento di queste “imprese della vanità” hanno fatto storia. E sono gustosissime e cattivelle. Ma servono ancora, perché il messaggio non a tutti è chiaro.
§         La trama, che percorre i binari della parodia, parte dai templari. Perché la letteratura fatta di intrecci improbabili, complicatissimi, di coincidenze e di enigmi parte sempre da loro. Nel 1988 ancora non si era manifestato il fenomeno Codice Da Vinci, ma state certi che dovunque si raccontasse di templari, comunque si ricorreva ad arcane cospirazioni, segreti e misteri. E da qualche parte c’era qualcuno pronto a crederci. C’è sempre qualcuno pronto a crederci. A superare le barriere della letteratura(?) per mettersi alla ricerca di segni. Di questa storia parallela, misteriosa, pasticciata, contraffatta, estremamente ingenua Umberto Eco si fa beffe.

E il lettore, che si identifica troppo, che troppo si lascia coinvolgere da questo romanzo, ne vien fuori malconcio…





[1] Il primo è Il nome della Rosa del 1980, indiscusso capolavoro.

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