mercoledì 6 agosto 2014

I mari del Sud, Lavorare stanca.

Stamane al risveglio i miei occhi hanno incontrato, di sghimbescio sul punto di cadere dal terzo ripiano della libreria, un’edizione di poesie di Cesare Pavese: “Le poesie” ET Einaudi 2014, raccolta che comprende Lavorare Stanca (nell’edizione solariana del ’36, con le aggiunte del ’43 e le altre rimaste fuori), La terra e la morte, Due poesie a T., Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, le dieci tristi per Constance Dowling. 
Il libro, fuori posto per puro caso, mi ha lanciato l’esca. Così, oggi, in spiaggia, ho messo da parte il noir di Nesbø con i suoi strangolatori, l’alcol, i night, le scandinave uccise, e ho lasciato spazio alla poesia di Lavorare Stanca, ritrovando la parola impura, materica, di Pavese che meglio si sposa alla concretezza ruvida degli scogli, alla realtà ancestrale del mare, del vento, all’assoluto del sole sulle nostre teste.
Eccola, la mia lettura d’agosto perfetta!
La poesia di Cesare Pavese non è liquida, non è canto, non ha la dolcezza di certe assonanze pascoliane, né le rime aspre e chiocce di Montale, non le voluttà dannunziane né le arditissime analogie dei simbolisti. Non evoca e non grida. Non piange e non denuncia. La sobrietà senza retorica la fa bella e diretta. In essa, un racconto, un mito, esistenze fatte di carne, fatica, ozio pieno e silenzio. L’ubriaco “che non vede né case né cielo/ ma li sa”. Contadini. Idioti. La prostituta al caffè al mattino, a riposo. La moglie del barcaiolo. Bambini. Il vecchio. Il giovane smilzo. Il cugino. “Vent’anni è stato in giro per il mondo” “Mio cugino è tornato, finita la guerra, / gigantesco fra i pochi. E aveva denaro”. La donna che è corpo, materia, collina, vendemmia, uva da spremere.
La prima poesia: “I mari del Sud” (settembre- novembre 1930) mi abbaglia. Un'epopea taciuta più che raccontata, sognata e lontana, grande proprio nel silenzio, nel non detto. Dice lo straniamento di chi torna a casa, dopo aver tanto vissuto, tanto visto e cerca (e trova e non trova) quello che c'era un tempo. Dei mari del sud  “Solo un sogno/ gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta/ da fuochista su un legno olandese da pesca, il Cetaceo, / e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole, / ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue/ e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia./ Me ne accenna talvolta / Ma quando gli dico / ch’egli è tra i fortunati che han visto l’aurora/ sulle isole più belle della terra, / al ricordo sorride e risponde che il sole/ si levava che il giorno era vecchio per loro.” Sfuma nella prosaicità del lavoro quotidiano l’eco a Melville e al grande Cetaceo. Il grande cugino ha navigato, esperto, non si lascia abbacinare dal fulgore letterario di certe fantasticherie da romanzieri.
Altre volte è un’immagine che mi colpisce, un dettaglio che porta in sé una storia, come la sciarpa perduta della protagonista di Due sigarette (1933): “Questa sciarpa veniva da Rio, ma dice la donna/ che è contenta di averla perduta, perché mi ha incontrato./ Se la sciarpa veniva da Rio, è passata di notte/ sull’oceano inondato di luce dal gran transatlantico. Certo, notti di vento./ È il regalo di un suo marinaio./ Non c’è più il marinaio. La donna bisbiglia/ che, se salgo con lei, me ne mostra il ritratto/ ricciolino e abbronzato. Viaggiava su sporchi vapori/ e puliva le macchine: io sono più bello”. Con la sciarpa io pure, sul transatlantico pieno di luci, in notti piene di vento, dalla costa di Rio viaggiavo e mi dimenticavo della caletta affollata nella mattina ventosa d’agosto duemilaquattordici. E della scottatura sugli omeri.
Credo che sia il mio cronico bisogno di ascoltare racconti che mi conduca a Pavese prima che ad altri poeti.
Viaggio nelle Langhe oggi, tra paesaggi (quanti i componimenti col titolo di Paesaggio!) di colline e di mare. La città di Torino appare, a volte, fra questi versi. È la modernità che giunge stordita e impone ritmi nuovi che la provincia, tutt’intorno, immota, non comprende. “La città mi ha insegnato infinite paure:/ una folla, una strada mi han fatto tremare,/ un pensiero talvolta, spiato su un viso./ Sento ancora negli occhi la luce beffarda/ dei lampioni a migliaia sul gran scalpiccio”.
E che dire delle Donne appassionate[1]?  Di quella creatura quasi mitologica che riaffiora dall’acqua, metà ricordo, metà sogno, metà sirena “ Ci sono occhi nel mare, che traspaiono a volte”? “Quell’ignota straniera, che nuotava di notte/ sola e nuda, nel buio quando muta la luna, / è scomparsa una notte e non torna mai più./ Era grande e doveva esser bianca abbagliante/ perché gli occhi, dal fondo del mare, giungessero a lei.”
Dalle Langhe agli ulivi secolari della mia terra, il passo è breve. Storie di contadini e marinai si somigliano tutte.

Della provincia che schiva la modernità e si aggrappa alle tradizioni e ai miti io non ho conosciuto che i racconti (di chi non c’è più). Forse è per questo che amo la voce anti-lirica di Pavese, per un non so che di familiare - e di perduto al contempo.





[1] Titolo di un componimento del 15 agosto 1935

2 commenti:

  1. bella recensione (la parola recensione è troppo austera) mi ha suscitato l’idea di leggerlo (da qualche parte devo averlo)

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    1. Grazie, Diego! No recensione proprio no, di fronte a Pavese non posso, "impressioni di lettura" piuttosto, che mi piace condividere e intrecciare con quelle degli altri...

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